Benvenuti

Questo spazio è stato pensato per tutti i partecipanti al corso di Museografia e Allestimento, tenuto dal Professor Carlos Basualdo alla Facoltà di Design e Arti, presso lo IUAV di Venezia.

lunedì 16 luglio 2007

Laura Pante e Stefania Filizola...

Questo è il progetto di Laura e Stefania, che ringrazio tantissimo di avermi inviato il materiale necessario alla sua pubblicazione...
le immagini risulteranno abbastanza piccole, ma come sempre potrete cliccarci sopra e vederle ingrandite. Mi dispiace che comunque siano abbastanza faticose da leggere anche una volta ingrandite, ma per motivi di ristrettezze di pixel il server non tollera immagini troppo grandi.
Il loro progetto a detta di tutti è molto interessante e faccio loro grandi complimenti per la qualità...
mancano le note che purtroppo sono raggiungibili attraverso il file.doc dal quale ho preso i testi...con calma cercherò una soluzione a questa mancanza e mi scuso fin da ora con Laura e Stefania.
grazie, giovanna


















Attitudine diagrammatica



“Il diagramma è una possibilità di fatto,
non il Fatto stesso.”
(G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione.)



διαγραμμα : dia attraverso, gramma qualcosa di scritto.
Il diagramma come strumento di indagine teorico – pratica ha accompagnato e messo in forma la nostra ricerca, attraversando e organizzando i testi, le conoscenze e gli approfondimenti acquisiti durante il corso in una sorta di immagine visiva rivolta alla costruzione di una struttura “investigativa” che vuole riflettere su dati concreti, quali lo spazio del museo di Philadelphia e la sua collezione, e sui modi di riflettere, di osservare, di leggere stessi.
Il diagramma come strumento di lettura e di scrittura, di lettura e di progetto, visualizza le relazioni significative fra realtà e sue interpretazioni organizzando e mostrando le possibili evoluzioni, o meglio trasformazioni.
Cosa significa leggere in questa prospettiva progettuale? E cosa significa prospettiva, punto di vista?
Utilizzando un attrezzo grafico come il diagramma è inevitabile confrontarsi con alcuni dati spaziali che implicano concetti architettonico – grafici come il disegno. E’ nel disegno, nella prospettiva centrale, che il punto di vista mette in forma il modo di pensare stesso, un’immagine che stigmatizza una certa solidità, ma anche una certa fissità apriorostica o antropocentrica.
In un progetto che sceglie per il suo svolgersi un attitudine diagrammatica il concetto di prospettiva si collega al concetto di sistema di riferimento e in questo senso al pensiero sotteso all’idea di origine del sistema stesso. Attuando una strategia dinamica quindi l’origine del nostro sistema di riferimento non vuole più appartenere ad un solo piano ma far proprio un movimento che trova nell’idea di attraversamento la sua caratteristica specifica.
“[…] gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell’essere visti e uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte. La fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva.”
Il tentativo vorrebbe essere quello di costruzione di quel mondo comune inteso come spazio in–fra che si produce mantenendo una visione striata ovvero una molteplicità di punti vista.
Il diagramma ha la funzione di creare un contesto, uno sfondo, nel quale si possano muovere idee, pensieri, persone e in questo caso opere. Esso risulta essere uno spazio di possibilità aperto al lavorio del pensiero che lo percorre e lo organizza per giustapposizioni visive, concettuali diverse come diversi sono i tipi di attraversamento possibili. Esso funziona utilizzando un meccanismo di riduzione e connessione risultando utile anche per una ricerca di ordine storico. In questo senso è stato utilizzato dall’architetto Peter Eisenman nei suoi studi su Terragni nonché nelle sue innovative strategie compositive in ambito architettonico.
Il diagramma quindi permette connessioni, e descrizioni che non rappresentano, ma costruiscono un nuovo tipo di realtà. Questa “macchina astratta” funziona per avvicinamenti successivi, approssimazioni appunto che non sono rivolte alla costruzione di un oggetto, di una soluzione, ma all’organizzazione di un processo conoscitivo, che viene messo continuamente in discussione ed interrogato.
Allo stesso modo la nostra ricerca ha cercato di indagare, attraversare, conoscere un nuovo contesto per farlo proprio e trasformarlo seguendone le caratteristiche ed in-formandolo attraverso le nostre attitudini specifiche. Un tentativo di avvicinamento di approssimazione per non cristallizzare ne bloccare il processo, ma per mostrarlo.
Piegare/spiegare , questo è il movimento che ha in-formato il nostro spazio/contesto d’azione, la struttura architettonica del museo di Philadelphia, e il nostro materiale, la sua collezione permanente.
L’idea di uno spazio ripiegato visualizzato nell’immagine dell’origami descrive, in ultima analisi, il processo che abbiamo seguito cercando di visualizzare le giustapposizioni che portassero con sé un resto al limite di una Wunderkammer barocca.

“La spiegatura non è dunque il contrario della piega, ma segue la piega fino al formarsi di un’altra piega.”




Creare e Preservare

Stefania Filizola


“La poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalle poesie, e però son tanti geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. ”
( G. Bruno, Degli eroici furori)


I dati sono sensibili.
Lo spazio resta indifeso.
La struttura resiste senza imporre se stessa.
Il tentativo di riunire un percorso attorno all’arte del secolo appena concluso, all’interno dell’istituzione del museo, sembra porre non pochi interrogativi sulla configurazione temporale da adottare (che non può più essere risolta adottando la comoda scelta cronologica) e sulla possibilità di rintracciare una coesistenza nel rapporto fra modernità e contemporaneità.
Certamente, l’appellativo di “categorie” in relazione ai termini in questione non aiuta allo sviluppo di un ragionamento utile; il tempo, pur con le sue umane cesure, rimane un continuum storico interrotto ed inafferrabile. L’unica categoria applicabile allora: la contemporaneità , questo attimo in cui, qui ed ora, afferriamo i saperi che furono prodotti e sono prodotti; e guardare alla storia per tentare di offrire all’altro una visione nuova e profonda in grado di organizzare questi saperi, assomiglia molto all’azione di scrivere un libro che nasce da una rilettura, cosa più importante per Benjamin della lettura stessa: “Ci sono uomini [...] che propriamente non comprendono mai un libro, perché non lo leggono una seconda volta. Eppure è soltanto allora che - come quando, bussando si esamina una parete e si ottiene qua e là una cupa risonanza - ci si imbatte in tesori che il lettore precedente - che in realtà eravamo noi stessi - vi aveva sepolto” .
E’ un movimento: l’esperienza della conoscenza.

I residui di una visione fortemente ancorata al concetto di modernità si esauriscono soltanto tra la seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta: quando, dall’Action Painting alla Pop Art, una forte iniziativa artistica nordamericana ha riarticola l’area internazionale dell’arte contemporanea.
Questa ristrutturazione valorizza una varietà di centri di produzione, di prodotti, flussi informativi e tradizioni storiche e metodologiche che accentuano la coscienza delle realtà artistiche dal 1905 in poi. Viene così immessa in circolo, e legittimata, tutta la gamma dei rapporti (anche di estraneità) delle diverse aree ed espressioni artistiche con il “moderno”.
E' difficile individuare, dagli anni cinquanta in poi, correnti o movimenti omogenei e programmati, così come è difficile, se non impossibile, applicare alle arti visive, e non solo ad esse, gli stessi parametri di giudizio fino ad allora usati in quegli anni.
I primi segni di una contestazione compaiono ad opera del critico americano Harold Rosenberg, contro il modernismo inteso come disimpegnato scivolamento di forma nuova in forma nuova. Vent’anni dopo Robert Hughes veniva ad offrire al dibattito la visione d’un ottundimento della capacita di urto del nuovo: “Tutta l’arte, in un modo o nell’altro, è situata nel mondo e spera di agire da catalizzatore tra l’io e il non-io. Il grande progetto del modernismo è stato di moltiplicare i modi per cui ciò fosse possibile. Ma ogni visione che insiste nel collocare il significato dell’arte nella facoltà di fare ciò che ancora non è stato fatto, tende a rifiutare i vantaggi dello spirito modernista. Scambia le pastoie ideologiche e l’angustia storicistica per il discorso aperto e ansioso che i nostri padri culturali ci hanno lasciato […] Forse le grandi energie del modernismo sono ancora latenti nella nostra cultura, come l’arco di Ulisse nella casa di Penelope. Ma sembra che nessuno sia in grado di tenderlo”. E ancora: “Quando si parla di fine del modernismo, e ormai non è più possibile evitare di farlo, visto che l’idea che siamo in una cultura postmoderna è diventato un luogo comune nella metà degli anni sessanta, non si vuole suggerire l’idea di un improvviso capolinea della storia. Le vicende non si spezzano in modo netto come una bacchetta di vetro; si logorano, si sfilacciano. Non ci fu un anno preciso in cui finì il Rinascimento. Ma finì, anche se la cultura è ancora permeata dai residui attivi del pensiero rinascimentale […] I risultati del modernismo continueranno a influenzare la cultura almeno per un altro secolo perché sono stati imponenti e convincenti. Ma la sua dinamica è finita e il nostro rapporto con esso sta diventando archeologico […] L’età del Nuovo è entrata nella Storia. Come quella di Pericle” .
Il diagramma di Alfred Barr pensato in occasione della mostra “Cubism and Abstract Art” nel 1936 ci mostra come, attraverso un ordine cronologico disposto verticalmente, una serie di definizioni di movimenti e correnti e si influenzino e si incrocino nel loro spiegarsi temporale; la conclusione risiede qui nella fissazione finale di una formula che vede la contrapposizione di astrazione geometrica e astrazione non - geometrica. Tutto è teso dunque verso la predizione di un futuro da farsi, da anticipare e da desiderare: un risultato.
In realtà la storia, depurata dagli aspetti messianici, è un processo. E’ un divenire ancora aperto. E il superamento di ciò che noi andiamo chiamando modernità lo possiamo raccogliere proprio in questo gesto di spostamento attuato verso i processi e che mostre come “When attitudes become forms”, “Information” e “Documenta 5” hanno saputo ben stigmatizzare.
Un diagramma per progettare una mostra dunque può costituire uno strumento per visualizzare e comprimere molteplici aspetti, a patto che, si liberi il suo aspetto proliferativi creando la scenografia ideale su cui adagiare gli artisti individuando le spinte, le ragioni e le prese di ogni ricerca.
Il diagramma qui proposto e costruito sulla base dei dati offerti dal Museo di Philadelphia per la riorganizzazione della collezione moderna e contemporanea, non intende imporre la sua risposta ma instancabilmente ancora continuare a demandare; il tempo non si stende verticalmente per segnare una gerarchia ma si condensa in un movimento di giustapposizioni e approssimazioni. La chiave adottata di una possibile convivenza fra opere appartenenti alle diverse epoche non dissolve la questione in un indistinto spettacolarizzante ma, attraverso la sua ipotesi di spazializzazione e ricognizione storica, procede verso la promessa di una reale esperienza offerta allo spettatore.
Pensare che dall’area del moderno possano confluire alcune opere nello spazio centrale ancora in via di progettazione, come “nuclei o cellule osmotiche” in grado di contaminare l’esistente, ci permette di riprodurre il punto di vista dell’artista che agisce sempre in un tessuto di connessioni volontarie e non con il passato, nonché la possibilità di tracciare attraversamenti che sollecitino lo spettatore ad uno sforzo di ricostruzione e riorganizzazione verso la conquista di una maggiore consapevolezza dei contenuti.
E alla fine, forse, non sapremo mai dove il desiderio dell’opera di collocarsi nello spazio istituzionale finisce, per far sì che lo sguardo si posi su un luogo della mente che non c’è e che là attende per essere ancora creato.





































Marina Camara e la Biennale di San Paolo















TARSILA DO AMARAL
Estrada de Ferro Central do Brasil, 1924
Óleo s/ tela;
142,0 x 126,8 cm

EFCB (Ferrovia Centrale Brasiliana) è dello stesso anno del viaggio dell’artista a Rio de Janeiro e a Minas Gerais insieme al poeta franco-svizzero Blaise Cendrasrs e ad altri modernisti. Evoca fortemente Léger con la sua composizione strutturata a partire dai segni urbanistiche moderni: lampioni, ponti, segnali ferroviari. La geometrizzazione degli elementi è abbastanza evidente, come la semplificazione delle forme, quella che sarà una constante nelle sue composizioni, elevando molto la linea dell’orizzonte e disponendo ordinatamente i diversi elementi dall’alto al basso. Tuttavia, a questa apparente razionalizzazione del tema se contrappone il colore “contadino” e liscio della fase pau-brasil, identificata con il nativismo modernista, sempre luminosa e senz’ombre. Appartengono al MAC (Museo de Arte Contemporanea) sia quest’opera che A Negra, del 1933, anticipatrice della fase antropofagica (1928), la magica Floresta (1929), e anche Costureiras (Sarte), olio iniziato nelle metà dei anni ‘30 in piena fase di preoccupazione sociale dell’artista, ripreso e finito nel 1950.




















ANITA MALFATTI
A Boba, 1915/ 1916
óleo s/ tela, 61 x 50,6 cm


Realizzata durante il periodo nel quale è stata negli Stati Uniti, A Boba è uno dei punti più alti della pittura di Anita. È frutto di una fase nella quale la pittura espressionista assorbe elementi cubo-futuristi. A Boba appartiene a uno dei momenti di “ricerca attiva”, la tela è costruita con il colore, in una orchestrazione di arancioni, gialli, azzurri e verdi, realizzando le zone cromatiche delineate dalle linee nere, nella maggior parte diagonali – ordinazione cubista. Nel primo piano, un’angolosa e asimmetrica figura riceve l’applicazione irregolare del colore. Nella fisionomia, l’espressione anormale e vaga è risaltata dalle tracce nere secondo l’estetica espressionista dell’irrazionale e disarmonico. Lo sfondo, elaborato con rapide pennellate, serve come contrappunto.




















MAX BILL
Unidade Tripartita (Unità Tripartita), 1948/49
Acciaio Inossidabile, 114,0 x 88,3 x 98,2
Donazione MAM-SP

Quest’opera ha ricevuto il premio di scultura nella Prima Biennale di San Paolo nel 1951. L’unità tripartita è prodotto dell’esperienze che si sarebbero consolidate nel lavoro di Max Bill. In questa si vede esplorato il concetto matematico dell’infinito, il famoso nastro di Moebius che nel suo aprirsi mostra la capacità di infinitezza del nastro. In questo nastro, Bill propone un sviluppo geometrico della forma nello spazio.





















VICTOR BRECHERET
Índio e a Suassuapara (Indigena e il cervo), 1951
Bronzo, 79,5 x 101,8 x 47,6 cm


Questa scultura chiude il percorso sull’artista Brecheret. “Indio e cervo” offre una tensione concettuale, dove la figura si equilibra con aspetti più essenziali. L’indigena è una forma gonfia nello spazio. È un gran volume. Pieno di iscrizioni, rivela il disegno nel suo viso, con bocca e occhi, cicatrici, strappi, tatuaggi e segni. Il pesce evolve la figura da dietro, la allaccia. I volumi si fondono e l’opera sembra in due ritmi: frontalmente, l’indigena coprendo il pesce, in una movimentazione ondulatoria. Dietro, il pesce sale verticalmente con la figura indigena, in un confronto di forze. Il materiale bronzo si apre in un’altra materialità. Prima, più liscio, ora con più testura. La luce si versa sopra le superficie, risalta il linguaggio di Brecheret: forme voluminose e semplificate, movimentazione organica, trattamenti materici diversi.
















FRANZ WEISSMAN
Cubo vazado (Cubo forato), 1951

(versione definitiva in acciao inossidabile 1974)

“Spazio ritirato da dentro o avanzato verso l’esterno”, nelle parole del critico Wilson Coutinho (in un testo del 1985), il Cubo Vazado è stato selezionato per la Bienal de Sao Paulo. Altre pezzi, che rinforzano l’adesione di Weissmann al concretismo sono, scartate dalla giuria della mostra. Eissmann esplora la relatività e l’ambivalenza delle forme fra piano e spazio. Lavora sbarre di alluminio di sezione ridotta, disposte in modo da suggerire cubi amplificati o in progressione. I suoi blocchi modulari, intercambiabili o variabili intorno alle asse, cercano la partecipazione attiva dell’osservatore: “Si prega di toccare gli oggetti” metteva nelle esposizioni.

...alla fine...

Interazione e aggiornamenti costanti stanno alla base della vita all'interno del mondo del WEB, ma anche le esperienze e le reazioni a queste fanno parte di questo blog.
Viviamo il mondo universitario in modo pieno, concreto e al tempo stesso ricco di idee e di nuove formule, abbiamo la fortuna di vivere esperienze molto eterogenee grazie ad un corpo didattico variegato, multidisciplinare e ricco di relazioni... proprio per questo motivo vorrei esprimere un piccolo pensiero alla conclusione di questo stare insieme all'interno del Laboratorio...
vorrei ringraziare moltissimo Carlos Basualdo ed Eleonora Charans per la completezza delle idee e delle suggestioni scaturite da letture, condivisioni, incontri e parole...
credo che l'esito del corso si possa stimare in positivo, anche se questo particolare strumento di comunicazione è stato sfruttato in modo ben diverso da un presupposto iniziale. Bisogna considerare che ogni accenno, ogni considerazione è stata proficua e che in alcuni istanti è servita anche a responsabilizzarci nel confronto aperto. Parlo in questo senso di alcune prese di posizione che, riviste, si sarebbero potute estendere con più cognizione.
I dibattiti ci sono stati e forse, semplicemente abituati a creare percorsi individualmente e con mezzi molto differenti (pensiamo a supporti multimediali, a lavori artistici e molto altro), ciascuno di noi ha incanalato le proprie somme al fine di far emergere un risultato, a volte inaspettato, con strade alternative.
Il mio lavoro spero sia servito da supporto e da continuazione ad una riflessione avvenuta soprattutto a lezione e di aver messo a disposizione una memoria visiva trasferita nella ricerca di alcune immagini riproposte.

Ripeto ancora una volta che questa potrebbe essere una cosa da continuare a vivere e di non considerare tutto come già fossile...
forse questa potrebbe essere una buona partenza per il corso dell'anno successivo per vedere in parte cosa è stato fatto.
Per fare questo ho ancora bisogno di voi e mi dispiace che alcune persone anche dopo l'esame non abbiano contribuito a tenere vivo questo spazio. Non lo dico con amarezza, ma con la speranza che capiscano l'importanza, non più formale, di una continuità al di fuori del momento d'esame...
aspetto che voi possiate farci incontrare i vostri percorsi di idee e di realizzazioni e sarà mio compito rivedere questo post dopo la giornata di oggi, appena riceverò materiali che vi riguardano...

grazie a tutti
giovanna

sabato 14 luglio 2007

Silvia Ferrarini

Contemplative Life
Il chiostro medievale del Philadelphia Museum of Art come luogo d’incontro ideale tra esperienze artistiche e società contemporanea.














Introduzione



Alla luce delle riflessioni fatte in aula circa il recente svilupparsi di nuovi tipi di temporalità all’interno delle istituzioni museali, mi sembra estremamente interessante proporre un’ipotesi di allestimento di una delle period rooms del Philadelphia Museum of Art, da sempre tra gli ambienti più fortemente caratterizzanti del museo.
Fiske Kimball, direttore del Philadelphia Museum of Art per trent’anni, dal 1925 al 1955, aveva imposto al museo un forte carattere didattico, mutuato da modelli europei come il Kaiser-Friedrich Museum di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra.
Egli voleva che il museo si orientasse completamente verso il pubblico, rispettandone le esigenze e le curiosità, e facilitando la comprensione della collezione con un percorso che costituisse un vero e proprio viaggio nel tempo.
Per questo dispose che le opere fossero collocate all’interno delle gallerie del museo in ordine cronologico e, da esperto di storia dell’architettura qual era, creò ambienti che ricostruissero fedelmente grandiose opere architettoniche di diverse epoche e aree del mondo, le period rooms.
All’epoca le period rooms rappresentavano una tendenza assolutamente innovativa negli allestimenti museali statunitensi; un celebre esempio era il Metropolitan Museum of Art che nel 1924 ne contava ben tredici.
In occasione della grande apertura ufficiale del Philadelphia Museum of Art, 26 marzo 1928 un successo clamoroso di pubblico confermò le intuizioni di Kimball: lo staff riscontrò che le period rooms erano state giudicate da molti visitatori come una delle parti più interessanti dell’intera collezione.



The Romanesque cloister and the Contemplative Life

















Ho scelto di incentrare le mie riflessioni su una sala della period room medievale, il chiostro romanico con elementi dell’Abbazia di Saint-Genis-des-Fontaines, provenienti da Roussillon, Francia e risalenti alla seconda metà del XIII secolo.
Fiske Kimball, che, dopo il soddisfacente opening del museo, aveva continuato le acquisizioni di elementi architettonici per allestire il secondo piano del museo, (Knight Foundation Gallery), nel 1930 faceva ricostruire nell’ala sud, il severo portale dell’Abbazia Augustiniana di Saint-Laurent, attraverso il quale si poteva accedere al suddetto ambiente del chiostro, al cui centro spicca la splendida fontana proveniente dal Monastero di Saint-Michel-de-Cuxa.
Il mio scopo è quello di riflettere sulla temporalità che caratterizza il museo, e più specificamente sulla forte connotazione storicizzata delle period rooms, innestando su questo tipo di struttura l’elemento più effimero delle mostra temporanea.
Tutto questo per poter offrire al pubblico un evento che coniughi i due aspetti di durata e di spettacolo: lo spettatore dovrà essere mosso a curiosità dall’evento temporaneo (connotazione più spettacolare) che rende più movimentato il tempo del museo, e in questo caso della period room medievale, ma allo stesso tempo dovrà esser portato a soffermarsi, a riflettere sui temi della mostra (tempo della durata).
Per prima cosa mi sono concentrata sullo spazio del chiostro e su ciò che esso rappresenta nella tradizione occidentale.
Il chiostro ci porta immediatamente a pensare alla vita monastica, scandita da preghiera e lavoro, ad un tempo dilatato e denso di meditazione, in altre parole alla contemplazione.
Il concetto di contemplazione è molto complesso e risale alla tradizione antica, ancor prima che a quella medievale, (che la grava di connotazioni religiose).
Aristotele nell’Etica Nicomachea, definisce la vita contemplativa (theoretikòs bíos) la più alta delle attività dell’uomo “giacchè l’intelligenza è la cosa più alta
che è in noi; e, fra le cose conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelligenza si occupa. […] L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco in quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose
.”
La vita contemplativa, dunque, ha per oggetto la ricerca intellettuale, l’osservazione critica del mondo e dei fenomeni che è componente essenziale per giungere alla conoscenza della verità.
A questa visione più laica della contemplazione si ispira Contemplative Life.
Giocando sulla complementarità dei due concetti teorici di vita contemplativa e vita attiva si intende meditare sulle pratiche artistiche, di ieri e di oggi, esponendo opere della collezione permanente di arte contemporanea in un contesto storicizzato e tradizionale.
Quest’ operazione ci permette di creare delle connessioni con tematiche che risultano essere ancora una volta al centro dell’attenzione dei teorici, così come dei lavori degli artisti.
Come non vedere nell’arte che si occupa di questioni pubbliche e sociali un’eco della cosiddetta vita attiva, di quell’impegno concreto nella società che gli stoici predicavano essere irrinunciabile?
E le ricerche metafisiche o formali non si spingono oltre la realtà contingente per contemplare la luce della verità?
O forse in ogni gesto artistico troviamo (o dovremmo trovare) una sintesi dialettica di entrambi questi aspetti?
Lo spettatore viene posto di fronte a tali quesiti che devono suscitare in lui degli spunti di riflessione.
In ciascuno di noi è insito il desiderio di conoscere l’ignoto, è proprio questo che attira le folle agli spettacoli.
Ed è su questo moto interiore di curiosità che l’esposizione dovrebbe far leva, in modo da risvegliare nello spettatore il piacere della conoscenza e la volontà di approfondire i concetti ed i legami profondi che esistono tra alcune pratiche artistiche ed i percorsi storico-critici che si sono intersecati nelle epoche passate.














Esperienze parallele:
Fred WILSON e la meditazione sul passato





















Per quanto riguarda la riflessione su epoche passate, e questioni che si protraggono da esse fino ai giorni nostri, è di notevole interesse il lavoro di un artista di origine afroamericana, che vive a New York, ed è noto al grande per le sue opere multimediali.
Fred Wilson compone installazioni che uniscono manufatti storici, oggetti kitsch, opere d’arte, video, suoni, testi fittizi e didascalie che reinterpretano in chiave ironica alcune “nozioni accettate di storia e di verità”.
Wilson utilizza spesso le collezioni museali come materia prima per le sue opere, nelle quali affronta sia temi storici che immaginari, come accade al Padiglione degli Stati Uniti d’America, rappresentati da Fred Wilson alla 50. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia.
Per quell’occasione Wilson aveva svolto un’accurata ricerca storica circa la presenza di neri africani nella Venezia del Rinascimento e l’intrecciarsi di rapporti con gli altri abitanti della città lagunare.
Attraverso l’evocazione di immagini iconografiche di neri, presenti a tutti i livelli della produzione artistica veneziana, dalle lampade pacchiane sorrette da mori sorridenti, ai capolavori di alcuni dei più grandi maestri, come Paolo Veronese,
l’artista compie un gesto grazie al quale si ricompongono le tessere di un mosaico che era rimasto incompiuto e che mette in evidenza alcuni aspetti dolorosi del presente.
Wilson riesce in effetti a parlarci di problemi della società contemporanea, quali l’immigrazione, il multiculturalismo, la tolleranza, attraverso il filtro delle esperienze passate, che per qualche motivo erano state rimosse.














Emblematico è il fatto che Wilson abbia chiesto ad un turista senegalese di fingere di vendere merce contraffatta, in realtà prodotta dall’artista, all’entrata del Padiglione, per creare un collegamento semantico diretto tra l’analisi, condotta secondo una prospettiva storica, della condizione degli africani a Venezia, e la meditazione critica sulla situazione degli immigrati nel presente. Senza contare il confronto naturale che si instaura tra la New York di oggi e la Venezia di allora, come punti di riferimento per le attività commerciali e luoghi d’incontro fra diverse etnie e religioni.
Più di dieci anni prima, nel 1992, la Baltimore’s Maryland Historical Society (MdHS) ospitava l’esposizione che avrebbe proiettato Fred Wilson nel panorama artistico contemporaneo: Mining the Museum.
Essa aveva “come soggetto la giustizia sociale e come medium la museologia”.
Tre erano gli obiettivi principali dell’artista in quest’esposizione: scavare all’interno delle collezioni per mostrare la presenza di minoranze razziali, esporre materiali storici toccanti, dal punto di vista emozionale, per risvegliare le coscienze e provocare così un cambiamento sociale ed istituzionale ed, infine, trovare riflessi di sé stesso all’interno del museo.
Articolata in otto sale, Mining the Museum occupava interamente il terzo piano dell’MdHS.
Le pareti delle stanze erano tinte di colori differenti, creando un vero e proprio percorso di senso per il visitatore, che muoveva dal grigio delle verità storiche, al verde delle emozioni umane, passando per il rosso violento della schiavitù e della ribellione, per giungere al blu dei sogni e delle conquiste ottenute con la fatica.
L’artista, che negli anni Settanta aveva avuto esperienze lavorative in istituzioni museali importanti, come il Metropolitan Museum of Art e l’American Museum of Natural History, nella seconda metà degli anni Ottanta aveva creato una serie di “finti musei” in luoghi del tutto estranei alla pratica espositiva.
In questo caso, invece, aveva, per la prima volta, a sua completa disposizione un ambiente istituzionale da sovvertire a suo piacimento, costruendo una vera e propria messa in scena con l’ausilio di tutti gli strumenti che i musei adoperano per allestire, comprese delle finte didascalie.
Questi dispositivi servivano all’artista-curatore per articolare il suo discorso critio contro gli stereotipi sul razzismo e i processi di manipolazione della verità che si trovano costantemente all’interno dell’industria culturale.
Conservando un delizioso sense of humour, Wilson ci guida, dunque, nel passato, alla scoperta delle radici di alcune delle problematiche che ancora oggi scuotono il mondo contemporaneo.
Il lavoro di Wilson, in un certo senso, rappresenta una sintesi dei due concetti di vita attiva e vita contemplativa: egli sceglie lo strumento della contemplazione, della ricerca storica e intellettuale per provocare lo spettatore e obbligarlo a riflettere, ed allo stesso tempo con la sua azione artistica mira a generare correnti di cambiamento in contesti istituzionali e sociali.

venerdì 29 giugno 2007

Scrivetemi...

vi ricordo che se volete pubblicare qualcosa, anche attinente ai progetti
potete inviarmi una mail a torcilia@libero.it

Spero riusciate a inviarmi del materiale per i progetti...

un post(o) per Chiara...

DEL CONTESTO, IN ANTOINE-CHRYSOSTOME QUATREMÈRE DE QUINCY E WALTER BENJAMIN

Più che una domanda, una considerazione.
Il testo è quello di Sherman, il campo d’intensità - qui per me in questione - il termine contesto in Quatremère, quindi in Benjamin.

Dalle Considération sur les arts du dessin del 1791, Sherman sottolinea il movimento che, per Quatremère, si pone come ostacolo alla produzione di un’arte che sia grande, ossia moralmente utile. Strappare un’opera dal proprio contesto - dal luogo di una connessione tra oggetti, memorie, tradizioni locali - significa privarla delle sue impressioni accessorie: di quelle impressioni che possono essere ricevute da quanto circonda l’opera e che tutte concorrono a fare risuonare questa stessa delle armonie di un bello assoluto. Lo sguardo di Quatremère corre infatti alla settecentesca promozione di una bellezza classica e vincola il contesto nel quale solo essa risuona, alla comunicazione di un preciso messaggio morale.

Il gesto di Quatremère risiede nell’individuare nell’estraneazione dal contesto un punto decisivo, la causa del sosituirsi del freddo spirito critico al piacere dei sensi e dello spirito, il luogo dell’interruzione di un messaggio. Quanto al punto critico della sua analisi questo è, precisamente, l’unicità del messaggio di cui l’opera può risuonare.

Lo stesso violento movimento di decontestualizzazione, liberato ormai dall’ideale settecentesco, è fortemente presente nel pensiero di Walter Benjamin, di cui Sherman, tuttavia, ricorda piuttosto la riflessione sulla perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica delle immagini.
Nel saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico Benjamin inividua nel gesto del collezionista quel movimento distruttivo attraverso il quale un oggetto che pareva ormai fermo negli scaffali della storia viene strappato al proprio contesto: alle determinazioni che lo tengono in una condizione larvale, di apparente assenza di vita; che viene, attraverso questo stesso gesto, restituito alla possibilità di esistere nella società dalla quale era stato staccato. È questo un movimento dal carattere rivoluzionario, detto distruttivo del continuum della storia nelle Tesi di filosofia della storia, e che è della stessa natura di quel gesto che nel teatro brechtiano, attraverso la tecnica dell’estraneazione, viene interrotto nel proprio corso. Che nell’interrompersi, in ciò stesso si espone. Strappare dal contesto, interompere, distruggere un continuum è, per Benjamin, come citare. In Che cos’è il teatro epico, scrive infati: “Citare un testo implica interrompere il contesto in cui rientra. […] ‘Rendere citabili I gesti’, è questo uno degli esiti essenziali del teatro epico.” Interrompere per mostrare, citare, è quel gesto che si compie per chiamare in giudizio, per portare un testo, un’opera un oggetto, all’ora della sua conoscibilità, all’appuntamento che questo ha con noi. Che, noi, avevamo dimenicato. È in quest’ora, nell’ora di una vita ulteriore, che balena per noi l’immagine storica. Che a noi si offre come costellazione, come un cristallo d’immagine.

Sia in Quatremère che in Benjamin centrale è il rapporto al contesto. Diverso, il segno che viene attribuito al movimento di strapargli un oggetto. Altrimenti non può essere, giacchè l’intenzione del primo è quella di salvaguardare uno specifico ideale, quella del secondo d’indicare un gesto che, dagli ideali in cui si ipostatizzano i discorsi dei vincitori, precisamente, possa liberarci.Vicina è anche l’idea di una risonanza tra gli elementi del contesto: che costituiscono l’armonia classica della quale risuonava l’opera trafugata da Roma del discorso di Quatremère, che individuano la nuova aggregazione nella quale è possible per noi il darsi di un rapporto di contemporaneità alle cose, nel gesto benjaminiano.

Importante, probabilmente, è sottolineare che strappare al contesto è primariamente, in Benjamin, capacità di tenersi in relazione con l’oggetto, ovvero, allo stesso modo, di garantire all’oggetto relazioni possibili. Non è certamente, sia detto, la creazione di isole prive di tempo o perse nel tempo.

Giorgio Agamben, nell’analisi della natura del tempo messianico contenuta ne Il tempo che resta, individua, nella condizione di una vita nel Messia, la capacità di far uso della propria condizione.

Liberare dal contesto in senso beniaminiano è restituire all’uso quell’opera che può risuonare, per noi, di una nuova aggregazione.



IL FANTASMA DEL PRINCIPE

Una considerazione sui fantasmi…

Si è detto in classe che l’attrazione per il principe è quanto oggi come allora, in una voce o in nella sua eco, ci dice e ci diceva di varcare la soglia del museo. Se ne è parlato, in particolare, in relazione al lucore di un prestigio che al cospetto del principe – o per lui del suo fantasma – esercitava su noi quel fascino dal quale venivamo un tempo rapiti e che oggi, per la sua stessa assenza, si suggerisce a noi.

Principe è soprattutto colui che sopra ogni altro è libero. Ab solutum, appunto: che è sciolto, vale a dire, da vincoli di obbedienza.

Mi sembra dunque si possa provare a pensare il perdurare di questa fascinazione come a quell’attrazione che l’autonomia stessa, che dicevamo del museo, esercita su di noi. Cercare l’opera in un museo, nel museo entrare per sprofondare in un passato che si tiene sempre ancora un passo indietro rispetto a noi, è forse ripetere a noi stessi la promessa di una zona franca, rilucente di una vita singolare che è quella del principe.
Tuttavia questo spazio, questo spazio rispettato, è lo stesso spazio che, anche, profaniamo furtivamente, quando appena siamo coscienti di aver parlato non le parole del principe, ma di avere immaginato il principe stesso parlare delle nostre.

Questo gesto animato da un doppio movimento e che compiamo rispetto alla nostra posizione nel discorso di un ordine museale come nell’alleanza che sanciamo con l’autore di un’opera in cui stia contratto ai nostri occhi il fascino dell’autonomia, è probabilmente quel gesto nel compiere il quale, insieme, si rende per noi possibile strappare le nostre stesse parole al loro contesto (per ricordare la citazione benjaminiana cui ho accennato in relazione a Quatremère), all’ordine di un discorso in cui siamo comunque già sempre stati presi,



FONTANA: VENEZIA -NEW YORK

Una riflessione non espressa sull'incontro appena conclusosi con Luca Massimo Barbero.

Si è parlato di visibilità. Mi sembra che la reale visibilità che sia emersa attraverso il suo allestimento delle opere di Fontana sia l'ora della visibilità cui le opere giungono quando riescono ad essere riattualizzate. E che riattualizzazione sia, per un curatore, la capacità di cogliere nel lavoro dell'artista l'indizio da tradurre nel discorso allestitivo. In Fontana questo indizio è la natura scultorea, più che pittorica, delle opere. Che si traduce dunque, nel momento dell'attualizzazione nella mostra, nella capacità di modulare, nel più concreto e fisico dei sensi, il corpo complessivo di queste opere allestendole in maniera da non perderne il diacronico significato storico e il respiro, sincronico, nello spazio. Se allestire Pollock è creare una mostra 'murale', e gestire la distanza dal muro, lavorare con Fontana è invece pensare al discorso dell'esposizione in senso scultoreo. Mi chiedo allora quanto possa aver pesato per il curatore non potere svolgere pienamente questo indizio raccolto, nel momento in cui a New York le condizioni dell'allestimento si sono date in maniera già fortemente vincolata ad una prassi che consente minore libertà nell'allestire una mostra. Dove a Venezia la qualità particolare della mostra stessa è stato l'aver potuto cogliere l'indizio scultoreo presente nelle opere per tradurlo nel loro allestimento e modulare le opere stesse nello spazio attivandone le relazioni e restituendone il discorso.



LIFE! RÉSUMÉ

Per chi possa ritenerlo utile ai fini dell'incontro Documenta, conversazione sui Magazines, questo è il riassunto del secondo dei tre magazine di Documenta12.

Il secondo leitmotiv di Documenta12, indagato nell’imperativo Life! del titolo del secondo numero di Documenta 12 Magazine prende le mosse dal concetto di nuda vita presentato da Giorgio Agamben in Homo sacer. Klaus Ronneberger, nell’interrogarsi sullo statuto della critica, analizza Homo Sacer. Tale, per Agamben, è l’uomo uccidibile ma non sacrificabile nelle forme del rito, la cui vita, ridotta al mero fatto di esistere, è stata separata nella sfera artificiale della vita biologica, della zoè, classicamente distinta dal bios. Dove l’azione del potere sovrano è quella di articolare la vita, il campo, in cui la vita naturale viene separata e lo stato di eccezione territorializzato, si mostra come paradigma della modernità. Nancy Adajana, nell’analizzare la situazione della Repubblica Indiana fondata nel 1950, estende la figura dell’homo sacer al cittadino indiano qualunque. Tale condizione è la normalità, non solo l’eccezione di Guantanamo. L’ubiquo homo sacer è il soggetto eletto di un melodramma d’intrattenimento mediatico, rispetto al quale reagisce il Cybermohalla project che lavora sul piano dell’espressione del linguaggio mediatico per opporsi all’informazione descrittiva in favore di una produzione culturale tecnologicamente capace. Nidhi Eoseewong, confrontando l’ordine impartito da un bandito con quello di un governo, indaga le ragioni del pericolo che il sistema democratico costituisce per una Thailandia poco partecipativa e tuttavia partecipe del racconto del progresso, spettatrice sia della rivoluzione del 1932 che del colpo di stato del 2006. Di una distanza dal progresso parlano le poesie di Yang Jan che dicono uno sguardo immobile di fronte alla città nella quale gli uomini sono come vagoni di un treno che attraversa il ponte dalla forma di una luna crescente. 
Adania Shibli, nel quadro della situazione palestinese dal 1948 ad oggi e nell’immagine del proprio orologio che cessa di funzionare in Palestina, descrive la sensazione di sospensione, come di un’assenza di tempo, che si avverte in Palestina. Anche Ovidiu Tichindeleanu sottolinea l’impossibilità di fare esperienza del tempo, quando il valore autocratico degli appartamenti seriali dell’Europa dell’Est e della Russia si perde nel circuito dello scambio generale.
Lucy Davis, in Notes for a Singapore bestiary, racconta gli slittamenti di reale e immaginario tra l’uomo e l’animale mentre Leo Bersani traccia la direzione possible di una corrispondenza tra soggetto e mondo al di là dell’antagonismo dualistico con un mondo che è ora la proiezione di sé, ora l’oggetto da distruggere. Compito del soggetto estetico e non psicanalitico, è quello di istituire, partendo da un’interiorità non soggettiva, una relazionalità fondata sulle corrispondenze.
Mladen Stilinovic propone un lavoro sulla pigrizia come condizione di un’arte che si riduce alla produzione di nulla. Simryn Gill, di Singapore, al volto umano sostituisce, nelle proprie fotografie, dei vegetali, che del volto hanno il comune ma non il singolare. Ion Grigorescu, rumeno, lavora sugli effetti della disintegrazione della società, visibili nelle strutture urbane e sociali. Così anche Jo Spence, inglese, utilizza la fotografia documentaria non solo per interrogare il potere ma soprattutto per interrogare il privato nel quale il potere si insinua. Wang Zi, cinese, fotografa le conseguenze del progresso sulla povertà. Ines Doujak, in un contesto in cui le conoscenze biologiche sulla vita diventano oggetto di proprietà privata, realizza un racconto visivo che fonde il discorso del barone von Humboldt e quello di J. Craig Vester per dipingere l’odierno potere coloniale. Dmitri Gutov fotografa i genitori che giocano al calcio di un immaginario collettivo ma nel contesto di una Russia rurale; in un’altra opera installa un pavimento di fango su cui non si erge alcuna delle costruzioni che nelle pitture realiste erano il simbolo di una nuova vita nel progresso. Ko Young-Il, coreano, usa la forma del fumetto per parlare delle proteste studentesche degli Anni Novanta e ironizzare gli stereotipi sull’attivismo politico. Masist Gül, armeno, impiega anch’egli il fumetto ma per dar forma alla propria biografia e alle ribellioni che ne fanno parte, mentre Bruce E.West scrive il dialogo-monologo di una personale battaglia diplomatica per la ribellione. Mircea Cantor fotografa le piccole condivise variazioni rispetto al percorso tracciato, mentre The third leg ironizza una cartografia queer. Lili Dujourie, belga, lavora sulla ricomposizione di frammenti in nuove storie, sullo scorrere del tempo, sulla propria nudità. Cao Guimarães mostra un video nel quale a comunicare non è che un linguaggio corporale. Yutaka Matsuzawa, giapponese, attraverso i Signs Poems cerca di comunicare trascendendo i bordi dei singoli linguaggi.



DOCUMENTA, CONVERSAZIONE SUI MAGAZINES

Ciao a tutti.
Si è concluso da poco l'incontro sui Magazines di Documenta. molti, decisamente, gli stimoli. Ne raccolgo un paio.
Prima, un brevissimo riassunto.

Carlos Basualdo ha tracciato una storia delle ultime tre edizioni di Documenta, alla luce dei rispettivi riferimenti culturali e di cosa possa significare, nel contesto di una grande mostra d'arte, il tentativo di cercarsi nella pratica di Beuys, nel pensiero di Deuleuze, di Agamben. Nelle sue considerazioni: la decima edizione, curata da Catherine David, riassunta nel logo in cui una X che non era scritta come un numero romano a seguire il titolo Documenta, ma veniva tracciata sopra la d di una documenta con l'iniziale minuscola, a dire 'non documenta' ma, piuttosto, mostra dei 100 giorni nel senso di 100 eventi, 100 incontri, 100 giorni di discussione; che citavano l'opera di Joseph Beuys per Documenta VI, consistente nel discutere, per i cento giorni della durata della mostra, temi sociali, ambientali, politici, umanitari. Documenta XI, curata da Okwi Enwezor e concepita come la quinta di cinque piattaforme di discussione, rispetto alla quale corre il pensiero ai Mille Plateaux di Gilles Deleuze e Felix Guattari. E Documenta XII, curata da Roger M. Buerge, che prende le mosse, nel secondo dei propri tre leitmotiv, dal concetto di nuda vita di Giorgio Agamben. E' poi intervenuto Agamben, a sottolineare come il concetto di nuda vita non indichi una condizione biologica dell'uomo ma sia un concetto eminentemente politico, prodotto culturalmente attraverso l'articolazione della vita dell'uomo in viata biologica e vita relazionale. A fronte di una difficoltà nel definire la vita, la si articola e rende oggetto di cesure. La nuda vita non è che quella vita che, separata per effetto di una disgiunzione operata politicamente, può essere catturata in una sfera a sé. In generale, sottolinea Agamben, la domanda da porsi è cosa sia l'uomo, cosa sia l'umano, se esso è tutto ciò che risulta da questa sconnessione operata per gestire la vita attraverso la sua articolazione. Soprattutto, nuda vita è concetto sul quale riflettere non per rimanerne all'interno ma per pensare un'altra figura del vivente, quella forma di vita che sia in grado di disattivare le divisioni operate. L'idea, è quella di pensare una indissolubilità della vita dalla sua forma; il luogo possibile del manifestarsi di questa idea, può essere pensato come quello dell'arte. Se l'arte contemporanea, come attestano quelle pratiche rispetto ale quali l'opera non è che un resto, sempre più è andata nella direzione dell'esposizione di una coincidenza tra la vita e la sua forma. Tuttavia, stando all'attuale stato delle cose, sembra sia più facile pensare il diviso, il già sempre articolato, piuttosto che l'unito. Più facile, spesso anche nelle pratiche artistiche, identificarsi con la vita divisa anzichè con questa nuova figura da pensare. E' seguito l'intervento di Angela Vettese, che ha preso le mosse dallo statuto attuale della forma saggio nell'ambito della critica d'arte. Sempre meno praticato, questo genere è ancora percorso in alcuni dei luoghi del sapere, dai quali riluce di un'autorevolezza che la critica e la storia dell'arte contemporanea guardano come un riferimento, attestando in ciò la debolezza del proprio sapere oppure, forse, la frammentarietà della forma nella quale questo, sottolinea Angela Vettese, si esprime. A partire dagli Anni Sessanta assistiamo infatti al tentativo di cercare una forma altra, non saggistica e spesso dichiaratamente personale, come nel caso di Carla Alonsi che registra la propria voce al magnetofono e inserisce nella pubblicazione foto della sua vita privata, che sceglie questa via, pur essendo avviata ad una carriera universitaria, accademica. Dal canto suo Germano Celant, che non si è per altro mai definito critico ma storico dell'arte, dedica del catalogo sull'arte povera sei pagine a ogni artista come sei pagine a sé, queste ultime, solamente, in forma scritta anzichè immaginale. Susan Sontag scrive nel 1963 Against interpretation, Lucy Lippard scrive nel 1973 Six Years: The Dematerialization of the Art Object, Yona Friedman pubblica degli scritti che non sono scritti ma disegni. Tutto ciò testimonia di un'egemonia del frammento, di un'assenza di teleologia. A ciò si aggiunge la riflessione sulle trasformazioni nella forma del catalogo di mostre, che in When Attitudes Become Form del 1969, si presentava come una rubrica, come ciò che è costituzionalmente non finito. Così anche per i libri fatti di xerocopie, omaggi a un sapere disarticolato o che può anche articolarsi, ma per poi scomporsi. Nel caso di Documenta12 i tre magazine non sono il catalogo ma una produzione edioriale che raccoglie una selezione di articoli, che non si offre nella forma saggio ma crede comunque nella forma scritta, come testimonia una veste grafica essenziale, che non si maschera degli effetti di un patinato sistema dell'arte e si presenta per i propri contenuti.

to be continued...


...a seguire, il termine del sunto dell'incontro Documenta. Conversazine sui magazines:

E' dunque intervenuto il preside Marco De Michelis che ricordando il pensiero di Manfredo Tafuri ha posto l'accento del proprio intervento sulla necessità, per le arti progettuali, di costruire un pensiero ideologico. Era il 1851 quando, in occasione della Grande Esposizione di Londra, veniva costruito il Crystal Palace. Edificato in ferro e vetro, il grande 'palazzo di cristallo' veniva progettato da Joseph Paxton, portatore, nella dimensione architettonica, delle proprie conoscenze di disegnatore di serre. Anziché il termine della nozione di architettura, questo momento segna il punto a partire dal quale è necessario un ri-pensamento dell'architettura, possibile solo nell'attenuarsi della distinzione tra arte e scienza nel senso di una transdisciplinarietà. E' soprattutto urgente, in questo senso, un pensiero della riforma nel senso del ridare forma. Moderna è una città che cresce e che è, in quanto tale, da riformare. Compito dell'arte sembra tuttavia quello di spiegare la tragedia della città moderna anzichè, come è necessario crederlo, quello di contribuire ad una costruzione ideologica. Di partecipare al pensiero della città, dunque, non invece alle derive utopistiche di cui ogni ideologia è a rischio. Angela Vettese ha ricordato, in proposito, il termine fatticcio introdotto da Bruno Latour, nel quale fatto e feticcio si fondono a indicare azioni come luoghi di utopie possibili, fatti dunque e non oggetti, nei quali collocare un sentimento del futuro. A seguire, la considerazione di Giorgio Agamben circa la frammentarietà invocata nell'intervento di Angela Vettese che, ricorda Agamben, a partire dalla riflessione dei romantici è ritenuta costituire il tratto fondamentale del saggio. La difficoltà nel volgersi a questa forma, dunque, ha da rinvenirsi altrove che nella frammentarietà, che è comune al saggio come ad altre forme della scrittura. 

In relazione al rapporto tra discipline diverse nominato da Marco De Michelis, è Giorgio Agamben a rilevare l'urgenza di pensare, in luogo di un'opposizione tra autonomia e unità delle discipline, quelle categorie attraverso le quali sia per noi possibile articolare il tempo, nella nostra lotta contro il tempo.



VITE INACCESSIBILI

Una prima considerazione sull'incontro Documenta. Conversazione sui magazines

I tre magazines oggetto dell'incontro sono il prodotto della selezione di articoli tratti dalle riviste che compongono il network editoriale di Documenta. Rete cartacea nella quale si trovano accostati gli scritti di filosofi, sociologhi, letterari, poeti, artisti, i magazines si danno ciascuno un titolo e un editoriale rendendo esplicita l'intenzione della produzione di un discorso. Quest'ultimo tuttavia, arriva a noi in maniera frammentaria. Quale sia la natura della frammentarietà che a noi si trasmette, questa è la questione su cui vorrei soffermarmi.
I tre magazines, salvo farlo in maniera marginale, non ospitano articoli di critica d'arte, quanto piuttosto d'indagine sociologica, filosofica o letteraria. La forma del saggio d'arte, come sottolinea Angela Vettese, non è presente. Non lo è, certamente, come forma d'elezione.
Non può dirsi tuttavia che quest'assenza sia dovuta al sopravanzare di forme di scrittura più frammentarie, se assumiamo che il saggio sia per sua natura un frammento che testimonia, nella propria forma, di una natura frammentaria e accidentale. Tale è la natura del saggio, scrivevano i romantici, rispetto a una Sehnsucht che, sola, è inesauribile. Ricorderà Lucàks, nel'introduzione in forma di lettera a L'anima e le forme, che l'attività di ogni vero saggista, rispetto alla sua aspirazione, è sempre frammentaria. Il saggio, scrive Lucàks, si interrompe bruscamente e tuttavia questa interruzione non scaturisce dall'interno, da quell'essenziale che il saggista coglie nell'opera e che nella forma del saggio si contrae in destino. II saggio estrae le cose dal mondo delle cose per salvarne quella vita che già una volta è stata salvata, in una forma, dall'arte. E' per ciò che in quel punto in cui il saggio si interrompe, qui, il saggio mostra anche che l'interruzione non è in alcun modo una fine: è piuttosto quel particolare luogo in cui si dà a vedere che l'essenziale, come non può cogliersi che occasionalmente, così anche non può che interrompersi in una maniera che sia accidentale. 
Una tale riflessione sull'essenza del saggio è, appare chiaro, inscindibilmente legata al rapporto dell'arte - e del saggio stesso a un grado ulteriore - alla possibilità del poter parlare della vita più viva. Dove questa possibilità sfuma, qui, alcun saggio che sia vero perchè in rapporto a quelle cose che lo sono alla vita, può più essere. E' dunque probabilmente necessario, per comprendere le ragioni dell'inflazione del saggio sull'arte, operare, internamente al discorso sul frammento, un'inversione: a noi sta non di rinvenire in una nuova frammentarietà dell'espressione i motivi della crisi, giacchè il saggio, possiamo dire, è il frammento per eccellenza; sta a noi invece di cercare queste ragioni nella vita stessa. Dove la vita cessa per noi di essere viva - di stare in potenza per una forma, qui, in questa rinuncia, è l'impossibilità di scriverne, nella forma del saggio. Questa è la vita catturata in una sfera a sé stante, lontana, per noi, dalla possibilità di farne uso.



DOCUMENTA 12, LA STORIA SENZA FORMA

Dopo il breve contemporaneo Gran Tour: Venezia/Basel/Kassel/Münster, qualche considerazione partendo da Kassel.

Per iniziare come è d’uopo dalle premesse, è necessario precisare che offrire come prima estemporanea riflessione un’ekfrasis dell’articolazione delle opere nello spazio equivarrebbe non a restituire dell’esposizione una prima impressione che sia in quanto tale generica eppur complessiva, quanto amputare il racconto intorno all’esposizione delle proprie possibilità di risuonare.
Documenta 12, in misura maggiore rispetto ad altre tra le grandi mostre, non risulta unicamente dalla disposizione nello spazio delle opere selezionate nè dal particolare disegno espositivo, per quanto coerente esso possa essere. Documenta 12 eccede il luogo della mostra d’arte dichiarando l’intenzione di produrre conoscenza negli effetti come nelle premesse della mostra, vedi: del suo pensiero. La dodicesima edizione prova in ciò di tenersi, nello specifico che le compete in quanto ulteriore e quinquennale momento, in una linea di coerenza – ma forse ancora formale – con le intenzioni iniziali di Arnold Bode. Più che una mostra, questi tre mesi vorrano essere stati il momento del rendersi visibile delle energie confluite nel pensiero di artisti e curatori e critici e scrittori in altre discipline, come in un contrarsi degli stessi per poi estendersi, alla vista, nella durata dei cento giorni.
Colta questa specificità, necessario è cercare in essa il punto critico su cui fare leva nel senso della riflessione: a contrarsi qui, soprattutto, sembra essere quella tendenza della pratica artistica allo sfrangiarsi non tanto dei propri confini quanto dei margini del proprio contesto. Dove le sfere – quella dell’evento quella della vita – continuano a rimanere separate, l’operazione di documenta è volta ad attrarre nella sfera dell’arte, che si comunica qui nella logica del grande evento, momenti di conoscenza che pertengono a sfere altre. Se necessario è cercare in ogni operazione il luogo in cui sempre sia possibile revocare le determinazioni, sta a noi guardare al movimento di convergenza del pensiero, nei suoi due diversi gradi dell’opera e della riflessione, sotto la luce della possibilità della disattivazione di quelle cesure che sono funzionali al governo delle cose come all’ammansimento dei corpi. Questo convergere è necessario pensarlo come quel luogo in cui sia possibile incubare la coincidenza tra la vita e la sua forma, sì che lo stare dell’una nell’altra sia non sperimentato ma esperito.

Detto ciò, una breve privata restituzione. Documenta 12 ha luogo nelle cinque principali sedi del Museum Fridericianum, di documenta-Halle, della Neue Galerie e dell’Aue-Pavillon e nelle due sedi distaccate del Kulturzentrum Schlachthof e dell’elBull.
Nella sala iniziale(0) della documenta-Halle si trovano inoltre esposte, disponibili alla consultazione, le riviste componenti il network dalla produzione editoriale dal quale sono stati selezionati gli articoli poi confluiti nei tre magazines Modernity?, Life! e Education.
Nei piccoli containers che affiancano ogni sede è acquistabile - insieme ai molti gadgets sottolineanti il momento commerciale che la mostra, anche, significa - il catalogo.
È partendo dal catalogo che può cogliersi in maniera immediata una posizione che nel visitare la mostra certamente ci raggiunge, non tuttavia nella forma di un messaggio diretto espresso ad alta voce. Il catalogo si compone, nella prima delle tre parti (rispettivamente Preface, Chronology, Appendix) di una breve introduzione articolata in due parti: prima, la presentazione di Bertram Hilgen, sindaco di Kassel, a sottolineare gli effetti magici che la fetta di cento giorni ritagliata ogni cinque anni nel tempo produce rispetto alla temporalità dell’intera città, a ricordare nel pensiero di Bode la rilevanza dei processi di comunicazione che avvolgono documenta e nelle figure del direttore Roger M.Buergel e del curatore Ruth Noack la scelta dei tre leitmotifs e l’apertura ai visitarori di documenta come di un luogo nel quale aprirsi a una collaborazione; seconda parte dell’introduzione e unico testo critico, la prefazione di Roger M.Buergel e Ruth Noack, centrale alla quale è la considerazione della radicalità della Formlosigkeit o formlessness, l’assenza di forma che tiene la grande esposizione fuori dalla possibilità di dedicarsi a un unico artista, a un unico periodo, a un determinato stile. Ruolo di documenta è per i due autori il volgersi al creare una piattaforma nella quale l’arte stessa possa comunicarsi e parlare nei propri termini.

Queste le premesse. Quale forma ‘senza forma’ possa darsi questo plateau, sembra essere la posta in gioco nel testo breve come nel catalogo come chiaramente nella mostra. Darsi una forma è probabilmente pensare la forma come sufficientemente morbida all’apertura del senso per le opere esposte, capace di correre oltre la celebrazione di nomi di artisti, di concetti omnicomprensivi, di identità geopolitiche.

Primo dato rilevante, l’estensione temporale delle opere scelte. La rosa delle opere esposte copre un arco di tempo sorprendente per una grande esposizione: a dialogare in essa sono opere di un qualche anno del XIV sec. come opere del 2007 di un XXI sec. Nell’esposizione tuttavia alcuna cronologia è manifestamente presente, ben diversamente da quanto accade nel catalogo, dove 310 delle 415 pagine sono dedicate alla sezione intitolata Chronology, che ordina le opere esposte per ordine cronologico anzichè per ordine alfabetico degli artisti, sezioni espositive o nuclei tematici. Questa scelta è dirompente e al tempo stesso invisibile: si mostra nel catalogo si dissimula nella mostra, testimonia di un criterio curatoriale che si vuole come principale, che non si è eletto tuttavia come quel principio atto a dirsi discorso della mostra sotto le mentite spoglie di un dovuto percorso di senso.
Le diverse opere di uno stesso artista si trovano distribuite tra le diverse sedi. Come ne consegue si trovano in relazioni di volta in volta diverse nello spazio fisico della mostra, come anche sono intervallate dai lavori realizzati da altri nel tempo intermedio alla realizzazione dell’una e dell’altra, nel catalogo. La produzione di uno stesso artista che abbia esposto più di un’opera si trova disosta nel tempo come all’interno di un pensiero temporale articolato in più voci, nel quale parlano l’Occidente come l’Oriente, l’estremo nord eschimese come il sud africano del mondo. L’impressione è che le opere – in figura gli istanti di questo tempo possibile, siano stati gestiti spazialmente, nella maniera contingente propria al gesto curatoriale, nel dispiegarsi della mostra; dove invece, nel luogo del catalogo, queste stesse opere siano state riposte come in un archivio dal quale ancora poter attingere. Il catalogo, che a noi dice cosa in mostra era presente, si tiene tra l’indeterminato dell’archivio e la scrittura storica che ogni cronologia, anche latentemente, veicola. Cronologico, non offre tuttavia teleologie: irrelate le une alle altre, le opere vi appaiono frammenti di un corso sconnesso dai nuovi arrivati anziché tasselli di un discorso dal podio. Non traccia della mostra, questo catalogo ci dice fin dove, indietro e lontano, lo sguardo si è teso.

Non è certo questo schizzo immediato il luogo per discutere con il rispetto dovuto la grana di ognuna delle voci presenti né l’influenza che l’una ha avuto sulle altre. Le questioni attuali legate all’international style, al multiculturalismo e a quanto velocemente è stato detto post-colonialismo emergono da sè nei lavori esposti. Queste tre ultime sono anche, è ineludibile, tra le problematiche gestite nel discorso espositivo attraverso le relazioni attivate e tuttavia l’urgenza primaria di documenta, immanente all’attenzione nel gestire le emergenze più di altre à la page, sembra risiedere nel tentativo di indicare un rapporto particolare alla temporalità: di recuperare il tempo come il luogo del crearsi di forme e di stili, aggiungerei di tematiche. L’operazione è delicata. Nel tenersi in bilico tra gli estremi dello stare nel generoso luogo del benefattore e il compiere un passo indietro rispetto a un’egotica presenza, cerca di attivare discorsi attraverso l’allestimento di lavori che insieme compongono un panorama nel quale i punti di fuga si fanno molteplici e convergono, possibili momenti centrali, in diversi punti del mondo.
Letto in questa chiave il tentativo sembra essere quello di esporre quelle opere che compongono e continuano nell’oggi i discorsi dell’arte e insieme di riconoscere centralità temporale – per noi creandola, certamente, rispetto a una storia già scritta – a quei luoghi del mondo prima ritenuti periferici rispetto alla così detta ‘linea’ del tempo. La temporalità intesa come possibilità di esperire il tempo non è un affare occidentale né relegato al passato.Se temporalità è presenza, sia nel luogo fisico dal quale è proceduta la storia dell’arte che in quei luoghi altri che sono centrali a sé e tuttavia, in relazione a un noi, sempre un po’ spostati o in procinto di spostamento.
La ‘linea’ di risulta dal complesso dell’esposizione non viene avvertita propriamente come una linea, giacchè non viene esposta come tale nell’organizzazione delle opere nello spazio. Questa linea, potremmo dire, anzichè comunicarsi come tale cerca di dirsi nel proprio essere temporale: portando, nel tempo, la temporalità delle relazioni possibili. I risultati potranno dirsi riusciti in misura maggiore o minore e non possono valutarsi che caso per caso, ma questo processo di apertura delle determinazioni, a una prima impressione, sembra essere la direzione nella quale si è mossa Documenta 12.

Così nella documenta-Halle sono esposti The Zoo Story(1) di Peter Friedl del 2007, la giraffa di nome Brownie, dal Sud Africa nello zoo di Qalquiliyah, morta durante l’invasione isaraeliana dei 19 agosto 2002, imbalsamata; in una sala adiacente e oppostaDouble Bubble(2) di Maja Bajevic, 2005, a bilanciare il messaggio dicendo non delle offese subite da Brownie in una città palestinese ma delle contraddizioni della cultura musulmana. Accanto a Brownie, Gris-gris pour Israel et la Palestine(3), domino tessile di bandiere nazionali sgocciolanti sangue in egual misura, 2006, di Abdoulaye Konaté. Sulla parete opposta è esposto – presenza profana alla bolla estetica – un lungo tappeto(4) del XIX sec. proveniente dal nord-ovest dell’Iran e raffigurante, pur nella stilizzazione, i rigogliosi giardini che sono stati l’ispirazione di poeti e pittori orientali. Al centro, la grande installazione Relax it’s only a ghost(5) del 2006 di Cosima von Bonin, centrale come un silenzioso Occidente, che ci dice di sé non essere che un fantasma che parla da un’isola lontana; nella stanza adiacente Phantom Truk(6) del 2007 di Inigo Manglano-Ovalle, per condurci, attraverso un ambiente in cui la nostra percezione è alterata da un filtro rosso alle finestre e da un suono esterno distorto dalla radio a terra, verso la replica in scala reale di ciò che dovrebbe essere – stando alle descrizioni presentate da Colin Powell presso le nazioni Unite nel 2003 per giustificare l’attacco in Irak – un laboratorio chimico mobile.
Nell’Aue-Pavillon sono esposti, tra le opere di oggi, una serie di veli da sposa del XIX sec.(7) coprenti il volto e provenienti dal Tajikistan. Questi si trovano tanto davanti a The transported of KwaNdebele, una serie di fotografie del 1983 realizzate da David Goldblatt raffiguranti dei lavoratori sudafricani trasportati al lavoro in un bus, che di fronte a una tra opere di John McCracken(8), il cui lavoro disseminato nelle varie sedi, nella veste pittorica, rima formalmente con i motivi decorativi tessuti nei veli. Le opere di McCracken concernono tuttavia lo stato della meditazione più che una posizione di critica sociale e prendono ispirazione ora dai mandala per le pitture, ora dall’arte egiziana o mesopotamica per le sculture. Se l’uno dei due rapporti ci parla di due diverse forme di segregazione: quella delle donne velate e quella prodotta dall’apartheid, dell’altro può essere interessante per noi la direzione dalla quale è detta discendere l’influenza sottolineata e che procede, nello specifico dell’accostamento, dall’oriente a un’America che è la patria dell’artista. Altra rima si tiene tra i veli nuziali e questa volta un video, dal quale rotolandosi su una decorazione simile ma di un tappeto di moschea un bambino ancora ignora le attività degli adulti.
Diverse altre opere, quali le miniature persiane e cinesi del XIV-XVI sec provenienti dalla collezione dell’ambasiatore prussiano nel XVIII sec. a Costantinopoli; l’opera calligrafica di Hadji Maqsud del 1573 realizzata a Tabriz, antica capitale dell’Iran; i disegni di porcellane cinesi del XVI sec provenienti dalla collezione di un connoisseur; un dipinto di Mihr Chand del XVIII sec. proveniente dal nord dell’India, si trovano esposte nella sede dello Schloss Wilhelmshöhe, il castello di Kassel che ospita un museo archeologico e di arte antica. Il gesto è forte, in particolare se si considera che la sede del castello, per i cento giorni di Documenta 12, non ha accolto unicamente le opere di un passato generalmente escluso dalla storia dell’arte prodotta in occidente, ma anche opere contemporanee quali Das Konzentrationslager der Liebe(9) dell’artista argentina Sonia Abiàn Rose, lavoro realizzato nel 2007 ma che dialoga, nelle forme di un tavolino settecentesco e dell’affresco allegorico, con l’epoca dalla quale provengono le opere di pittura che nel secondo piano del castello si trovano sulle pareti tra le quali sta il tavolino dipinto, dai cassetti che combinano storie. Sempre nel castello, Zofia Kulik(10) espone, moderno ritratto tra i ritratti della grande tradizione ritrattistica, uno dei tableaux fotografici da lei ottenuti attraverso la combinazione di immagini in forme architettoniche; Kerry James Marshall(11) – che insieme alla Kulik, al cadenzante John McCracken, a Juan Davila e Cosima von Bonin è tra le presenze più evidenti per il numero di opere esposte – vede il proprio lavoro collocato sotto un dipinto del museo raffigurante uomini di provenienza africana conosciuti al tempo come mori. L’accostamento è riduttivo, tuttavia è da tenere presente che individua solo una tra le declinazioni nella presentazione delle numerore opere dei due artisti in mostra, che nelle sale del Fridericianum e dell’Aue Pavillon non sono vincolati a un messaggio così chiaro come quello di cui sono fatti portatori nel castello. Un tale dialogo tra presente e passato, nella propria chiara evidenza, potrebbe apparire semplice quando non ridutivo. È possibile tuttavia interrogarsi su questa scelta e ritenere che essa contribuisca a generare un ulteriore livello di lettura, se considerata nella relazione all’altro dei dialoghi con la tradizione disponibile a Kassel: quello di cui sopra tra l’arte antica occidentale e l’arte antica non occidentale. È dunque possible, sotto questa luce, credere che il gesto allestitivo non rinvii a una volontà di riscrivere la storia per classificare in essa manufatti orientali alla stessa stregua di oggetti archeologici e di compiere in ciò un atto dovuto nel senso del risarcimento. La presenza sul piano delle relazioni alla storia – la storia che viene classificata ma insieme salvata all’interno dei musei – delle opere di un passato straniero come di un presente globale, ha piuttosto da essere visto come il prodotto dell’urgenza di comprendere l’evoluzione di quelle forme dell’arte di oggi che diventano per noi attuali nelle relazioni che artisti di altre nazionalità stabiliscono al proprio passato (come è evidente in Recording2006 chang’an street(12) di Lu Hao, che nel 2006 realizza una lunga panoramica orizzontale della strada Chan’an di Pechino sul tradizionale rotolo di seta dell’Ukiyoe, esposto presso l’Aue-Pavilllon) e, insieme, come il tenersi in relazione alla nostra tradizione già museificata e tuttavia, e ancora, disponibile all’uso.
Ultime ma non meno importanti, due opere della storia dell’arte già scritta sono state scelte tra le altre: L’Exposition Universelle di Édouard Manet del 1867 e l’Angelus Novus(13) di Paul Klee del 1920, esposte anch’esse in una sede del castello. Giova ricordare che l’acquarello di Klee inevitabilmente risuona della lettura benjaminiana della figura alata come dell’angelo della storia, trascinato lontano dalla terra dal vento del progresso che soffia nelle sue ali, che guarda alla terra, da cui è a forza trascinato via, come a un cumulo di rovine che vorrebbe ricomporre attraverso uno sguardo volto alla terra come al passato. Rovine, stracci, citazioni sono per Walter Benjamin tutti sinonimi di quei frammenti rispetto ai quali il nostro compito è creare nuove costellazioni: aggregazioni che risuonino, della forza dell’immagine dialettica. Cercare una forma nel senza-forma è allora, forse, pensare la forma come una pratica immaginale in continua ridefinizione. Sempre ancora suscettibile di nuove aggregazioni.










Fig. 0 Aue Pavillion, sala riviste.












Fig.1 Peter Friedl, The Zoo Story, 2007.












Fig. 2 Maja Bajevic, Double Bubble, 2005.












Fig. 3 Abdoulaye Konaté, Gris-gris pour Israel et la Palestine, 2005.































Fig. 4 nord-ovest Iran, tappeto, XIX sec.































Fig. 5 Cosima von Bonin, Relax it’s only a ghost, 2006.




























Fig. 6 Inigo Manglano-Ovalle, Phantom Truk, 2007.















Fig. 7 Tajikistan, veli da sposa, XIX sec.













Fig. 8 John Mc Cracken, Tantric, 1971.











Fig. 9 Sonia Abiàn Rose, Das Konzentrationslager der Liebe, 2007.




















Fig. 10 Zofia Kulik, The Splendor of Myself (II),1997.















Fig. 11 Kerry James Marshall, The Lost Boys: Baby Brother und Black Johnny, 1993.





















Fig. 12 Lu Hao, Recording 2006 Chang’an street, 2006.














Fig. 13 Paul Klee, Angelus Novus, 1920.

sabato 23 giugno 2007

Palazzo Fortuny... Artempo











ciao ragazzi,
questo pomeriggio sono andata a vedere Artempo al Fortuny, così volevo farvi vedere qualche foto rubata e qualche impressione, soprattutto riguardo all'allestimento.
Intanto QUI trovate delle immagini delle opere presenti all'esposizione!















Devo dire che alcune opere, quasi la maggioranza, sono davvero strepitose.
Lo spazio da allestire è molto complesso e disomogeneo, dunque al pianterreno una sala d'ingresso buia non particolarmente capiente, il mezzanino così ricco di per sè che riesce difficile creare uno spazio leggibile, il primo piano molto più luminoso ma anch'esso carico di presenze...
purtroppo ho poche immagini da presentarvi, quel che sono riuscita a fare è stato ben poco. I guardiasala erano molto ligi...
potremmo anche completare l'opera se qualcuno avesse voglia di riuscire nell'intento mostrando altre cose... sono qui ad attendervi!

Per cominciare eccovi due immagini di un'opera di Anish Kapoor,
S-Curve del 2006, specchio, della Collezione Shaun Regen; Regen Projects:




















Appena entrati alla vostra sinistra trovate una scultura imponente che raffigura un uomo, posta di spalle. Devo dire che l'abbinamento con l'opera di fronte, Studio del corpo umano di Francis Bacon del 1986 pare molto efficace.
Olio e pastello su tela, della Collezione Marlborough International Fine Art...
C'è un richiamo molto forte e lo sfondo del quadro di colore giallo freddo fa risaltare invece l'immagine umana, un uomo di spalle tortuoso. Eccovi l'immagine dell'opera di Bacon:



















Vedete alla destra nel quadro si vede un'ombra che emerge. Sulla parete della sala del Fortuny c'è una gigante ombra della scultura che gioca come risonanza alla parete sinistra.



L'opera che avrei voluto più fotografare è la Medusa (Anamorphosa) del 2001 di William Kentridge, Museum Palast Düsseldorf.





















L'opera è posta su di un piedistallo e lo sguardo credo sia più o meno ad un metro e venti... c'è un disco ricoperto da due metà circolari che sono due mezzi dischi ritagliati da un dizionario...su questi fogli ci sono dei numeri, delle parole scritte in colore rosso e delle figure anamorfiche che rappresentano da una parte Medusa e dall'altra un uomo che porta dell'acqua con due secchi...i disegni sono fatti con del carboncino, come usa fare sempre lui.
Al centro di questo disco c'è appoggiato un cilindro di ottone, posto verticalmente, alto circa 20 cm., che dà molto contrasto all'immagine nera su pagina bianca, e fissando il cilindro è possibile vedere l'immagine di Medusa e dell'uomo senza distorsione, nella sua piena efficacia. Se vi muovete attorno, movimento indotto dalla struttura cilindrica, potete vedere che lo sguardo vi segue, fino ad arrivare alla figura riflessa dalla parte opposta. Insomma, sembra che sia Medusa a guardarci, non noi a guardare lei.












Una foto invece non male è questa della scultura in bronzo di Thomas Schütte dal titolo Golden Eyes del 2007 (Collezione dell'artista).


















Al primo piano c'è anche Giorgio De Chirico con uno dei suoi Trovatore, del 1950.
Olio su cartone applicato a tela, 50 x 40 cm, della Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Venezia, Ca’ Pesaro...














...accanto ai Due modelli anatomici / Two anatomic models, della Collezione Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Collection Axel Vervoordt, Belgium.



Per la mia tesi di Laurea ho studianto a fondo il significato di manichino, statua, fantasmi di Giorgio De Chirico e devo dire che la scelta sembra essere perfettamente coerente con ciò che voleva dire la'utore. Vediamo due modelli anatomici, insomma che sembrano essere lì per mostrarci le parti di cui sono composti. De Chirico nei suoi scritti, soprattutto l'Ebdomero del 1929 e anche nei suoi dipinti ci presenta l'entità del manichino. Esso è costituito da parti, che vengono esaltate dalle giunture disegnate, dall'assenza dell'espressività dei volti vuoti e che quindi ne sottolineano l'oggettivazione come pure teste... addirittura egli scrive che lo scultore non è colui che costruisce simulacri, ma che al momento della loro morte li libera dal corpo integro, ormai pronto alla decomposizione e con magli e scalpelli li frantuma in mille pezzi...












la statua è colei che sta morendo, il fantasma è colui che vivrà in eterno, il manichino è in uno stadio intermedio, è un passaggio dalla morte alla vita... i suoi pezzi si animano...come nei due modelli anatomici si passa dalla vita alla morte...



Qualche parolina su...

avevo promesso di parlare dell'allestimento, ma vorrei fare semplicemente un piccolo inciso... credo che la volontà e l'esigenza didattica di una mostra questa volta sia andata proprio perduta e ho trovato questo aspetto molto irritante da più punti di vista. Le opere sono a volte prive di didascalie e le stesse guardiasala mi hanno confermato che non tutte le opere hanno un riferimento. Questo si riflette anche per quanto riguarda il catalogo. Lo stesso è composto dal primo centinaio di pagine, non numerate, che contengono "fluttuanti" e prive del contesto in cui sono state inserite, su sfondo nero!!! Non sono nemmeno tutte, come ogni passeggiata al bookshop può essere deludente quando si cerca la cartolina com l'opera che ti ha lasciato un segno nel cuore e ovviamente nessuno l'ha scelta. Nel catalogo alle ultime pagine un saggio che parla della Mostra e poi qualche scheda addirittura chiamata "tecnica", dove a volte hanno semplicemente citato l'autore in qualche affermazione ad effetto, fulmen in clausula, ovviamente senza riferimento...
se le immagini scelte non sono tutte non si hanno nemmeno tutte le schede "tecniche" delle opere contenute e scelte... bah! secondo voi questo catalogo è tornato a casa con me? ve lo lascio come beneficio del dubbio.


non preoccupatevi, il racconto non termina qui!
ci vediamo presto con la continuazione!
ciao a tutti
giovanna