Benvenuti

Questo spazio è stato pensato per tutti i partecipanti al corso di Museografia e Allestimento, tenuto dal Professor Carlos Basualdo alla Facoltà di Design e Arti, presso lo IUAV di Venezia.

lunedì 16 luglio 2007

Laura Pante e Stefania Filizola...

Questo è il progetto di Laura e Stefania, che ringrazio tantissimo di avermi inviato il materiale necessario alla sua pubblicazione...
le immagini risulteranno abbastanza piccole, ma come sempre potrete cliccarci sopra e vederle ingrandite. Mi dispiace che comunque siano abbastanza faticose da leggere anche una volta ingrandite, ma per motivi di ristrettezze di pixel il server non tollera immagini troppo grandi.
Il loro progetto a detta di tutti è molto interessante e faccio loro grandi complimenti per la qualità...
mancano le note che purtroppo sono raggiungibili attraverso il file.doc dal quale ho preso i testi...con calma cercherò una soluzione a questa mancanza e mi scuso fin da ora con Laura e Stefania.
grazie, giovanna


















Attitudine diagrammatica



“Il diagramma è una possibilità di fatto,
non il Fatto stesso.”
(G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione.)



διαγραμμα : dia attraverso, gramma qualcosa di scritto.
Il diagramma come strumento di indagine teorico – pratica ha accompagnato e messo in forma la nostra ricerca, attraversando e organizzando i testi, le conoscenze e gli approfondimenti acquisiti durante il corso in una sorta di immagine visiva rivolta alla costruzione di una struttura “investigativa” che vuole riflettere su dati concreti, quali lo spazio del museo di Philadelphia e la sua collezione, e sui modi di riflettere, di osservare, di leggere stessi.
Il diagramma come strumento di lettura e di scrittura, di lettura e di progetto, visualizza le relazioni significative fra realtà e sue interpretazioni organizzando e mostrando le possibili evoluzioni, o meglio trasformazioni.
Cosa significa leggere in questa prospettiva progettuale? E cosa significa prospettiva, punto di vista?
Utilizzando un attrezzo grafico come il diagramma è inevitabile confrontarsi con alcuni dati spaziali che implicano concetti architettonico – grafici come il disegno. E’ nel disegno, nella prospettiva centrale, che il punto di vista mette in forma il modo di pensare stesso, un’immagine che stigmatizza una certa solidità, ma anche una certa fissità apriorostica o antropocentrica.
In un progetto che sceglie per il suo svolgersi un attitudine diagrammatica il concetto di prospettiva si collega al concetto di sistema di riferimento e in questo senso al pensiero sotteso all’idea di origine del sistema stesso. Attuando una strategia dinamica quindi l’origine del nostro sistema di riferimento non vuole più appartenere ad un solo piano ma far proprio un movimento che trova nell’idea di attraversamento la sua caratteristica specifica.
“[…] gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell’essere visti e uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte. La fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva.”
Il tentativo vorrebbe essere quello di costruzione di quel mondo comune inteso come spazio in–fra che si produce mantenendo una visione striata ovvero una molteplicità di punti vista.
Il diagramma ha la funzione di creare un contesto, uno sfondo, nel quale si possano muovere idee, pensieri, persone e in questo caso opere. Esso risulta essere uno spazio di possibilità aperto al lavorio del pensiero che lo percorre e lo organizza per giustapposizioni visive, concettuali diverse come diversi sono i tipi di attraversamento possibili. Esso funziona utilizzando un meccanismo di riduzione e connessione risultando utile anche per una ricerca di ordine storico. In questo senso è stato utilizzato dall’architetto Peter Eisenman nei suoi studi su Terragni nonché nelle sue innovative strategie compositive in ambito architettonico.
Il diagramma quindi permette connessioni, e descrizioni che non rappresentano, ma costruiscono un nuovo tipo di realtà. Questa “macchina astratta” funziona per avvicinamenti successivi, approssimazioni appunto che non sono rivolte alla costruzione di un oggetto, di una soluzione, ma all’organizzazione di un processo conoscitivo, che viene messo continuamente in discussione ed interrogato.
Allo stesso modo la nostra ricerca ha cercato di indagare, attraversare, conoscere un nuovo contesto per farlo proprio e trasformarlo seguendone le caratteristiche ed in-formandolo attraverso le nostre attitudini specifiche. Un tentativo di avvicinamento di approssimazione per non cristallizzare ne bloccare il processo, ma per mostrarlo.
Piegare/spiegare , questo è il movimento che ha in-formato il nostro spazio/contesto d’azione, la struttura architettonica del museo di Philadelphia, e il nostro materiale, la sua collezione permanente.
L’idea di uno spazio ripiegato visualizzato nell’immagine dell’origami descrive, in ultima analisi, il processo che abbiamo seguito cercando di visualizzare le giustapposizioni che portassero con sé un resto al limite di una Wunderkammer barocca.

“La spiegatura non è dunque il contrario della piega, ma segue la piega fino al formarsi di un’altra piega.”




Creare e Preservare

Stefania Filizola


“La poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente, ma le regole derivano dalle poesie, e però son tanti geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. ”
( G. Bruno, Degli eroici furori)


I dati sono sensibili.
Lo spazio resta indifeso.
La struttura resiste senza imporre se stessa.
Il tentativo di riunire un percorso attorno all’arte del secolo appena concluso, all’interno dell’istituzione del museo, sembra porre non pochi interrogativi sulla configurazione temporale da adottare (che non può più essere risolta adottando la comoda scelta cronologica) e sulla possibilità di rintracciare una coesistenza nel rapporto fra modernità e contemporaneità.
Certamente, l’appellativo di “categorie” in relazione ai termini in questione non aiuta allo sviluppo di un ragionamento utile; il tempo, pur con le sue umane cesure, rimane un continuum storico interrotto ed inafferrabile. L’unica categoria applicabile allora: la contemporaneità , questo attimo in cui, qui ed ora, afferriamo i saperi che furono prodotti e sono prodotti; e guardare alla storia per tentare di offrire all’altro una visione nuova e profonda in grado di organizzare questi saperi, assomiglia molto all’azione di scrivere un libro che nasce da una rilettura, cosa più importante per Benjamin della lettura stessa: “Ci sono uomini [...] che propriamente non comprendono mai un libro, perché non lo leggono una seconda volta. Eppure è soltanto allora che - come quando, bussando si esamina una parete e si ottiene qua e là una cupa risonanza - ci si imbatte in tesori che il lettore precedente - che in realtà eravamo noi stessi - vi aveva sepolto” .
E’ un movimento: l’esperienza della conoscenza.

I residui di una visione fortemente ancorata al concetto di modernità si esauriscono soltanto tra la seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta: quando, dall’Action Painting alla Pop Art, una forte iniziativa artistica nordamericana ha riarticola l’area internazionale dell’arte contemporanea.
Questa ristrutturazione valorizza una varietà di centri di produzione, di prodotti, flussi informativi e tradizioni storiche e metodologiche che accentuano la coscienza delle realtà artistiche dal 1905 in poi. Viene così immessa in circolo, e legittimata, tutta la gamma dei rapporti (anche di estraneità) delle diverse aree ed espressioni artistiche con il “moderno”.
E' difficile individuare, dagli anni cinquanta in poi, correnti o movimenti omogenei e programmati, così come è difficile, se non impossibile, applicare alle arti visive, e non solo ad esse, gli stessi parametri di giudizio fino ad allora usati in quegli anni.
I primi segni di una contestazione compaiono ad opera del critico americano Harold Rosenberg, contro il modernismo inteso come disimpegnato scivolamento di forma nuova in forma nuova. Vent’anni dopo Robert Hughes veniva ad offrire al dibattito la visione d’un ottundimento della capacita di urto del nuovo: “Tutta l’arte, in un modo o nell’altro, è situata nel mondo e spera di agire da catalizzatore tra l’io e il non-io. Il grande progetto del modernismo è stato di moltiplicare i modi per cui ciò fosse possibile. Ma ogni visione che insiste nel collocare il significato dell’arte nella facoltà di fare ciò che ancora non è stato fatto, tende a rifiutare i vantaggi dello spirito modernista. Scambia le pastoie ideologiche e l’angustia storicistica per il discorso aperto e ansioso che i nostri padri culturali ci hanno lasciato […] Forse le grandi energie del modernismo sono ancora latenti nella nostra cultura, come l’arco di Ulisse nella casa di Penelope. Ma sembra che nessuno sia in grado di tenderlo”. E ancora: “Quando si parla di fine del modernismo, e ormai non è più possibile evitare di farlo, visto che l’idea che siamo in una cultura postmoderna è diventato un luogo comune nella metà degli anni sessanta, non si vuole suggerire l’idea di un improvviso capolinea della storia. Le vicende non si spezzano in modo netto come una bacchetta di vetro; si logorano, si sfilacciano. Non ci fu un anno preciso in cui finì il Rinascimento. Ma finì, anche se la cultura è ancora permeata dai residui attivi del pensiero rinascimentale […] I risultati del modernismo continueranno a influenzare la cultura almeno per un altro secolo perché sono stati imponenti e convincenti. Ma la sua dinamica è finita e il nostro rapporto con esso sta diventando archeologico […] L’età del Nuovo è entrata nella Storia. Come quella di Pericle” .
Il diagramma di Alfred Barr pensato in occasione della mostra “Cubism and Abstract Art” nel 1936 ci mostra come, attraverso un ordine cronologico disposto verticalmente, una serie di definizioni di movimenti e correnti e si influenzino e si incrocino nel loro spiegarsi temporale; la conclusione risiede qui nella fissazione finale di una formula che vede la contrapposizione di astrazione geometrica e astrazione non - geometrica. Tutto è teso dunque verso la predizione di un futuro da farsi, da anticipare e da desiderare: un risultato.
In realtà la storia, depurata dagli aspetti messianici, è un processo. E’ un divenire ancora aperto. E il superamento di ciò che noi andiamo chiamando modernità lo possiamo raccogliere proprio in questo gesto di spostamento attuato verso i processi e che mostre come “When attitudes become forms”, “Information” e “Documenta 5” hanno saputo ben stigmatizzare.
Un diagramma per progettare una mostra dunque può costituire uno strumento per visualizzare e comprimere molteplici aspetti, a patto che, si liberi il suo aspetto proliferativi creando la scenografia ideale su cui adagiare gli artisti individuando le spinte, le ragioni e le prese di ogni ricerca.
Il diagramma qui proposto e costruito sulla base dei dati offerti dal Museo di Philadelphia per la riorganizzazione della collezione moderna e contemporanea, non intende imporre la sua risposta ma instancabilmente ancora continuare a demandare; il tempo non si stende verticalmente per segnare una gerarchia ma si condensa in un movimento di giustapposizioni e approssimazioni. La chiave adottata di una possibile convivenza fra opere appartenenti alle diverse epoche non dissolve la questione in un indistinto spettacolarizzante ma, attraverso la sua ipotesi di spazializzazione e ricognizione storica, procede verso la promessa di una reale esperienza offerta allo spettatore.
Pensare che dall’area del moderno possano confluire alcune opere nello spazio centrale ancora in via di progettazione, come “nuclei o cellule osmotiche” in grado di contaminare l’esistente, ci permette di riprodurre il punto di vista dell’artista che agisce sempre in un tessuto di connessioni volontarie e non con il passato, nonché la possibilità di tracciare attraversamenti che sollecitino lo spettatore ad uno sforzo di ricostruzione e riorganizzazione verso la conquista di una maggiore consapevolezza dei contenuti.
E alla fine, forse, non sapremo mai dove il desiderio dell’opera di collocarsi nello spazio istituzionale finisce, per far sì che lo sguardo si posi su un luogo della mente che non c’è e che là attende per essere ancora creato.





































Marina Camara e la Biennale di San Paolo















TARSILA DO AMARAL
Estrada de Ferro Central do Brasil, 1924
Óleo s/ tela;
142,0 x 126,8 cm

EFCB (Ferrovia Centrale Brasiliana) è dello stesso anno del viaggio dell’artista a Rio de Janeiro e a Minas Gerais insieme al poeta franco-svizzero Blaise Cendrasrs e ad altri modernisti. Evoca fortemente Léger con la sua composizione strutturata a partire dai segni urbanistiche moderni: lampioni, ponti, segnali ferroviari. La geometrizzazione degli elementi è abbastanza evidente, come la semplificazione delle forme, quella che sarà una constante nelle sue composizioni, elevando molto la linea dell’orizzonte e disponendo ordinatamente i diversi elementi dall’alto al basso. Tuttavia, a questa apparente razionalizzazione del tema se contrappone il colore “contadino” e liscio della fase pau-brasil, identificata con il nativismo modernista, sempre luminosa e senz’ombre. Appartengono al MAC (Museo de Arte Contemporanea) sia quest’opera che A Negra, del 1933, anticipatrice della fase antropofagica (1928), la magica Floresta (1929), e anche Costureiras (Sarte), olio iniziato nelle metà dei anni ‘30 in piena fase di preoccupazione sociale dell’artista, ripreso e finito nel 1950.




















ANITA MALFATTI
A Boba, 1915/ 1916
óleo s/ tela, 61 x 50,6 cm


Realizzata durante il periodo nel quale è stata negli Stati Uniti, A Boba è uno dei punti più alti della pittura di Anita. È frutto di una fase nella quale la pittura espressionista assorbe elementi cubo-futuristi. A Boba appartiene a uno dei momenti di “ricerca attiva”, la tela è costruita con il colore, in una orchestrazione di arancioni, gialli, azzurri e verdi, realizzando le zone cromatiche delineate dalle linee nere, nella maggior parte diagonali – ordinazione cubista. Nel primo piano, un’angolosa e asimmetrica figura riceve l’applicazione irregolare del colore. Nella fisionomia, l’espressione anormale e vaga è risaltata dalle tracce nere secondo l’estetica espressionista dell’irrazionale e disarmonico. Lo sfondo, elaborato con rapide pennellate, serve come contrappunto.




















MAX BILL
Unidade Tripartita (Unità Tripartita), 1948/49
Acciaio Inossidabile, 114,0 x 88,3 x 98,2
Donazione MAM-SP

Quest’opera ha ricevuto il premio di scultura nella Prima Biennale di San Paolo nel 1951. L’unità tripartita è prodotto dell’esperienze che si sarebbero consolidate nel lavoro di Max Bill. In questa si vede esplorato il concetto matematico dell’infinito, il famoso nastro di Moebius che nel suo aprirsi mostra la capacità di infinitezza del nastro. In questo nastro, Bill propone un sviluppo geometrico della forma nello spazio.





















VICTOR BRECHERET
Índio e a Suassuapara (Indigena e il cervo), 1951
Bronzo, 79,5 x 101,8 x 47,6 cm


Questa scultura chiude il percorso sull’artista Brecheret. “Indio e cervo” offre una tensione concettuale, dove la figura si equilibra con aspetti più essenziali. L’indigena è una forma gonfia nello spazio. È un gran volume. Pieno di iscrizioni, rivela il disegno nel suo viso, con bocca e occhi, cicatrici, strappi, tatuaggi e segni. Il pesce evolve la figura da dietro, la allaccia. I volumi si fondono e l’opera sembra in due ritmi: frontalmente, l’indigena coprendo il pesce, in una movimentazione ondulatoria. Dietro, il pesce sale verticalmente con la figura indigena, in un confronto di forze. Il materiale bronzo si apre in un’altra materialità. Prima, più liscio, ora con più testura. La luce si versa sopra le superficie, risalta il linguaggio di Brecheret: forme voluminose e semplificate, movimentazione organica, trattamenti materici diversi.
















FRANZ WEISSMAN
Cubo vazado (Cubo forato), 1951

(versione definitiva in acciao inossidabile 1974)

“Spazio ritirato da dentro o avanzato verso l’esterno”, nelle parole del critico Wilson Coutinho (in un testo del 1985), il Cubo Vazado è stato selezionato per la Bienal de Sao Paulo. Altre pezzi, che rinforzano l’adesione di Weissmann al concretismo sono, scartate dalla giuria della mostra. Eissmann esplora la relatività e l’ambivalenza delle forme fra piano e spazio. Lavora sbarre di alluminio di sezione ridotta, disposte in modo da suggerire cubi amplificati o in progressione. I suoi blocchi modulari, intercambiabili o variabili intorno alle asse, cercano la partecipazione attiva dell’osservatore: “Si prega di toccare gli oggetti” metteva nelle esposizioni.

...alla fine...

Interazione e aggiornamenti costanti stanno alla base della vita all'interno del mondo del WEB, ma anche le esperienze e le reazioni a queste fanno parte di questo blog.
Viviamo il mondo universitario in modo pieno, concreto e al tempo stesso ricco di idee e di nuove formule, abbiamo la fortuna di vivere esperienze molto eterogenee grazie ad un corpo didattico variegato, multidisciplinare e ricco di relazioni... proprio per questo motivo vorrei esprimere un piccolo pensiero alla conclusione di questo stare insieme all'interno del Laboratorio...
vorrei ringraziare moltissimo Carlos Basualdo ed Eleonora Charans per la completezza delle idee e delle suggestioni scaturite da letture, condivisioni, incontri e parole...
credo che l'esito del corso si possa stimare in positivo, anche se questo particolare strumento di comunicazione è stato sfruttato in modo ben diverso da un presupposto iniziale. Bisogna considerare che ogni accenno, ogni considerazione è stata proficua e che in alcuni istanti è servita anche a responsabilizzarci nel confronto aperto. Parlo in questo senso di alcune prese di posizione che, riviste, si sarebbero potute estendere con più cognizione.
I dibattiti ci sono stati e forse, semplicemente abituati a creare percorsi individualmente e con mezzi molto differenti (pensiamo a supporti multimediali, a lavori artistici e molto altro), ciascuno di noi ha incanalato le proprie somme al fine di far emergere un risultato, a volte inaspettato, con strade alternative.
Il mio lavoro spero sia servito da supporto e da continuazione ad una riflessione avvenuta soprattutto a lezione e di aver messo a disposizione una memoria visiva trasferita nella ricerca di alcune immagini riproposte.

Ripeto ancora una volta che questa potrebbe essere una cosa da continuare a vivere e di non considerare tutto come già fossile...
forse questa potrebbe essere una buona partenza per il corso dell'anno successivo per vedere in parte cosa è stato fatto.
Per fare questo ho ancora bisogno di voi e mi dispiace che alcune persone anche dopo l'esame non abbiano contribuito a tenere vivo questo spazio. Non lo dico con amarezza, ma con la speranza che capiscano l'importanza, non più formale, di una continuità al di fuori del momento d'esame...
aspetto che voi possiate farci incontrare i vostri percorsi di idee e di realizzazioni e sarà mio compito rivedere questo post dopo la giornata di oggi, appena riceverò materiali che vi riguardano...

grazie a tutti
giovanna

sabato 14 luglio 2007

Silvia Ferrarini

Contemplative Life
Il chiostro medievale del Philadelphia Museum of Art come luogo d’incontro ideale tra esperienze artistiche e società contemporanea.














Introduzione



Alla luce delle riflessioni fatte in aula circa il recente svilupparsi di nuovi tipi di temporalità all’interno delle istituzioni museali, mi sembra estremamente interessante proporre un’ipotesi di allestimento di una delle period rooms del Philadelphia Museum of Art, da sempre tra gli ambienti più fortemente caratterizzanti del museo.
Fiske Kimball, direttore del Philadelphia Museum of Art per trent’anni, dal 1925 al 1955, aveva imposto al museo un forte carattere didattico, mutuato da modelli europei come il Kaiser-Friedrich Museum di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra.
Egli voleva che il museo si orientasse completamente verso il pubblico, rispettandone le esigenze e le curiosità, e facilitando la comprensione della collezione con un percorso che costituisse un vero e proprio viaggio nel tempo.
Per questo dispose che le opere fossero collocate all’interno delle gallerie del museo in ordine cronologico e, da esperto di storia dell’architettura qual era, creò ambienti che ricostruissero fedelmente grandiose opere architettoniche di diverse epoche e aree del mondo, le period rooms.
All’epoca le period rooms rappresentavano una tendenza assolutamente innovativa negli allestimenti museali statunitensi; un celebre esempio era il Metropolitan Museum of Art che nel 1924 ne contava ben tredici.
In occasione della grande apertura ufficiale del Philadelphia Museum of Art, 26 marzo 1928 un successo clamoroso di pubblico confermò le intuizioni di Kimball: lo staff riscontrò che le period rooms erano state giudicate da molti visitatori come una delle parti più interessanti dell’intera collezione.



The Romanesque cloister and the Contemplative Life

















Ho scelto di incentrare le mie riflessioni su una sala della period room medievale, il chiostro romanico con elementi dell’Abbazia di Saint-Genis-des-Fontaines, provenienti da Roussillon, Francia e risalenti alla seconda metà del XIII secolo.
Fiske Kimball, che, dopo il soddisfacente opening del museo, aveva continuato le acquisizioni di elementi architettonici per allestire il secondo piano del museo, (Knight Foundation Gallery), nel 1930 faceva ricostruire nell’ala sud, il severo portale dell’Abbazia Augustiniana di Saint-Laurent, attraverso il quale si poteva accedere al suddetto ambiente del chiostro, al cui centro spicca la splendida fontana proveniente dal Monastero di Saint-Michel-de-Cuxa.
Il mio scopo è quello di riflettere sulla temporalità che caratterizza il museo, e più specificamente sulla forte connotazione storicizzata delle period rooms, innestando su questo tipo di struttura l’elemento più effimero delle mostra temporanea.
Tutto questo per poter offrire al pubblico un evento che coniughi i due aspetti di durata e di spettacolo: lo spettatore dovrà essere mosso a curiosità dall’evento temporaneo (connotazione più spettacolare) che rende più movimentato il tempo del museo, e in questo caso della period room medievale, ma allo stesso tempo dovrà esser portato a soffermarsi, a riflettere sui temi della mostra (tempo della durata).
Per prima cosa mi sono concentrata sullo spazio del chiostro e su ciò che esso rappresenta nella tradizione occidentale.
Il chiostro ci porta immediatamente a pensare alla vita monastica, scandita da preghiera e lavoro, ad un tempo dilatato e denso di meditazione, in altre parole alla contemplazione.
Il concetto di contemplazione è molto complesso e risale alla tradizione antica, ancor prima che a quella medievale, (che la grava di connotazioni religiose).
Aristotele nell’Etica Nicomachea, definisce la vita contemplativa (theoretikòs bíos) la più alta delle attività dell’uomo “giacchè l’intelligenza è la cosa più alta
che è in noi; e, fra le cose conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelligenza si occupa. […] L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco in quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose
.”
La vita contemplativa, dunque, ha per oggetto la ricerca intellettuale, l’osservazione critica del mondo e dei fenomeni che è componente essenziale per giungere alla conoscenza della verità.
A questa visione più laica della contemplazione si ispira Contemplative Life.
Giocando sulla complementarità dei due concetti teorici di vita contemplativa e vita attiva si intende meditare sulle pratiche artistiche, di ieri e di oggi, esponendo opere della collezione permanente di arte contemporanea in un contesto storicizzato e tradizionale.
Quest’ operazione ci permette di creare delle connessioni con tematiche che risultano essere ancora una volta al centro dell’attenzione dei teorici, così come dei lavori degli artisti.
Come non vedere nell’arte che si occupa di questioni pubbliche e sociali un’eco della cosiddetta vita attiva, di quell’impegno concreto nella società che gli stoici predicavano essere irrinunciabile?
E le ricerche metafisiche o formali non si spingono oltre la realtà contingente per contemplare la luce della verità?
O forse in ogni gesto artistico troviamo (o dovremmo trovare) una sintesi dialettica di entrambi questi aspetti?
Lo spettatore viene posto di fronte a tali quesiti che devono suscitare in lui degli spunti di riflessione.
In ciascuno di noi è insito il desiderio di conoscere l’ignoto, è proprio questo che attira le folle agli spettacoli.
Ed è su questo moto interiore di curiosità che l’esposizione dovrebbe far leva, in modo da risvegliare nello spettatore il piacere della conoscenza e la volontà di approfondire i concetti ed i legami profondi che esistono tra alcune pratiche artistiche ed i percorsi storico-critici che si sono intersecati nelle epoche passate.














Esperienze parallele:
Fred WILSON e la meditazione sul passato





















Per quanto riguarda la riflessione su epoche passate, e questioni che si protraggono da esse fino ai giorni nostri, è di notevole interesse il lavoro di un artista di origine afroamericana, che vive a New York, ed è noto al grande per le sue opere multimediali.
Fred Wilson compone installazioni che uniscono manufatti storici, oggetti kitsch, opere d’arte, video, suoni, testi fittizi e didascalie che reinterpretano in chiave ironica alcune “nozioni accettate di storia e di verità”.
Wilson utilizza spesso le collezioni museali come materia prima per le sue opere, nelle quali affronta sia temi storici che immaginari, come accade al Padiglione degli Stati Uniti d’America, rappresentati da Fred Wilson alla 50. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia.
Per quell’occasione Wilson aveva svolto un’accurata ricerca storica circa la presenza di neri africani nella Venezia del Rinascimento e l’intrecciarsi di rapporti con gli altri abitanti della città lagunare.
Attraverso l’evocazione di immagini iconografiche di neri, presenti a tutti i livelli della produzione artistica veneziana, dalle lampade pacchiane sorrette da mori sorridenti, ai capolavori di alcuni dei più grandi maestri, come Paolo Veronese,
l’artista compie un gesto grazie al quale si ricompongono le tessere di un mosaico che era rimasto incompiuto e che mette in evidenza alcuni aspetti dolorosi del presente.
Wilson riesce in effetti a parlarci di problemi della società contemporanea, quali l’immigrazione, il multiculturalismo, la tolleranza, attraverso il filtro delle esperienze passate, che per qualche motivo erano state rimosse.














Emblematico è il fatto che Wilson abbia chiesto ad un turista senegalese di fingere di vendere merce contraffatta, in realtà prodotta dall’artista, all’entrata del Padiglione, per creare un collegamento semantico diretto tra l’analisi, condotta secondo una prospettiva storica, della condizione degli africani a Venezia, e la meditazione critica sulla situazione degli immigrati nel presente. Senza contare il confronto naturale che si instaura tra la New York di oggi e la Venezia di allora, come punti di riferimento per le attività commerciali e luoghi d’incontro fra diverse etnie e religioni.
Più di dieci anni prima, nel 1992, la Baltimore’s Maryland Historical Society (MdHS) ospitava l’esposizione che avrebbe proiettato Fred Wilson nel panorama artistico contemporaneo: Mining the Museum.
Essa aveva “come soggetto la giustizia sociale e come medium la museologia”.
Tre erano gli obiettivi principali dell’artista in quest’esposizione: scavare all’interno delle collezioni per mostrare la presenza di minoranze razziali, esporre materiali storici toccanti, dal punto di vista emozionale, per risvegliare le coscienze e provocare così un cambiamento sociale ed istituzionale ed, infine, trovare riflessi di sé stesso all’interno del museo.
Articolata in otto sale, Mining the Museum occupava interamente il terzo piano dell’MdHS.
Le pareti delle stanze erano tinte di colori differenti, creando un vero e proprio percorso di senso per il visitatore, che muoveva dal grigio delle verità storiche, al verde delle emozioni umane, passando per il rosso violento della schiavitù e della ribellione, per giungere al blu dei sogni e delle conquiste ottenute con la fatica.
L’artista, che negli anni Settanta aveva avuto esperienze lavorative in istituzioni museali importanti, come il Metropolitan Museum of Art e l’American Museum of Natural History, nella seconda metà degli anni Ottanta aveva creato una serie di “finti musei” in luoghi del tutto estranei alla pratica espositiva.
In questo caso, invece, aveva, per la prima volta, a sua completa disposizione un ambiente istituzionale da sovvertire a suo piacimento, costruendo una vera e propria messa in scena con l’ausilio di tutti gli strumenti che i musei adoperano per allestire, comprese delle finte didascalie.
Questi dispositivi servivano all’artista-curatore per articolare il suo discorso critio contro gli stereotipi sul razzismo e i processi di manipolazione della verità che si trovano costantemente all’interno dell’industria culturale.
Conservando un delizioso sense of humour, Wilson ci guida, dunque, nel passato, alla scoperta delle radici di alcune delle problematiche che ancora oggi scuotono il mondo contemporaneo.
Il lavoro di Wilson, in un certo senso, rappresenta una sintesi dei due concetti di vita attiva e vita contemplativa: egli sceglie lo strumento della contemplazione, della ricerca storica e intellettuale per provocare lo spettatore e obbligarlo a riflettere, ed allo stesso tempo con la sua azione artistica mira a generare correnti di cambiamento in contesti istituzionali e sociali.