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Questo spazio è stato pensato per tutti i partecipanti al corso di Museografia e Allestimento, tenuto dal Professor Carlos Basualdo alla Facoltà di Design e Arti, presso lo IUAV di Venezia.

sabato 14 luglio 2007

Silvia Ferrarini

Contemplative Life
Il chiostro medievale del Philadelphia Museum of Art come luogo d’incontro ideale tra esperienze artistiche e società contemporanea.














Introduzione



Alla luce delle riflessioni fatte in aula circa il recente svilupparsi di nuovi tipi di temporalità all’interno delle istituzioni museali, mi sembra estremamente interessante proporre un’ipotesi di allestimento di una delle period rooms del Philadelphia Museum of Art, da sempre tra gli ambienti più fortemente caratterizzanti del museo.
Fiske Kimball, direttore del Philadelphia Museum of Art per trent’anni, dal 1925 al 1955, aveva imposto al museo un forte carattere didattico, mutuato da modelli europei come il Kaiser-Friedrich Museum di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra.
Egli voleva che il museo si orientasse completamente verso il pubblico, rispettandone le esigenze e le curiosità, e facilitando la comprensione della collezione con un percorso che costituisse un vero e proprio viaggio nel tempo.
Per questo dispose che le opere fossero collocate all’interno delle gallerie del museo in ordine cronologico e, da esperto di storia dell’architettura qual era, creò ambienti che ricostruissero fedelmente grandiose opere architettoniche di diverse epoche e aree del mondo, le period rooms.
All’epoca le period rooms rappresentavano una tendenza assolutamente innovativa negli allestimenti museali statunitensi; un celebre esempio era il Metropolitan Museum of Art che nel 1924 ne contava ben tredici.
In occasione della grande apertura ufficiale del Philadelphia Museum of Art, 26 marzo 1928 un successo clamoroso di pubblico confermò le intuizioni di Kimball: lo staff riscontrò che le period rooms erano state giudicate da molti visitatori come una delle parti più interessanti dell’intera collezione.



The Romanesque cloister and the Contemplative Life

















Ho scelto di incentrare le mie riflessioni su una sala della period room medievale, il chiostro romanico con elementi dell’Abbazia di Saint-Genis-des-Fontaines, provenienti da Roussillon, Francia e risalenti alla seconda metà del XIII secolo.
Fiske Kimball, che, dopo il soddisfacente opening del museo, aveva continuato le acquisizioni di elementi architettonici per allestire il secondo piano del museo, (Knight Foundation Gallery), nel 1930 faceva ricostruire nell’ala sud, il severo portale dell’Abbazia Augustiniana di Saint-Laurent, attraverso il quale si poteva accedere al suddetto ambiente del chiostro, al cui centro spicca la splendida fontana proveniente dal Monastero di Saint-Michel-de-Cuxa.
Il mio scopo è quello di riflettere sulla temporalità che caratterizza il museo, e più specificamente sulla forte connotazione storicizzata delle period rooms, innestando su questo tipo di struttura l’elemento più effimero delle mostra temporanea.
Tutto questo per poter offrire al pubblico un evento che coniughi i due aspetti di durata e di spettacolo: lo spettatore dovrà essere mosso a curiosità dall’evento temporaneo (connotazione più spettacolare) che rende più movimentato il tempo del museo, e in questo caso della period room medievale, ma allo stesso tempo dovrà esser portato a soffermarsi, a riflettere sui temi della mostra (tempo della durata).
Per prima cosa mi sono concentrata sullo spazio del chiostro e su ciò che esso rappresenta nella tradizione occidentale.
Il chiostro ci porta immediatamente a pensare alla vita monastica, scandita da preghiera e lavoro, ad un tempo dilatato e denso di meditazione, in altre parole alla contemplazione.
Il concetto di contemplazione è molto complesso e risale alla tradizione antica, ancor prima che a quella medievale, (che la grava di connotazioni religiose).
Aristotele nell’Etica Nicomachea, definisce la vita contemplativa (theoretikòs bíos) la più alta delle attività dell’uomo “giacchè l’intelligenza è la cosa più alta
che è in noi; e, fra le cose conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelligenza si occupa. […] L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco in quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose
.”
La vita contemplativa, dunque, ha per oggetto la ricerca intellettuale, l’osservazione critica del mondo e dei fenomeni che è componente essenziale per giungere alla conoscenza della verità.
A questa visione più laica della contemplazione si ispira Contemplative Life.
Giocando sulla complementarità dei due concetti teorici di vita contemplativa e vita attiva si intende meditare sulle pratiche artistiche, di ieri e di oggi, esponendo opere della collezione permanente di arte contemporanea in un contesto storicizzato e tradizionale.
Quest’ operazione ci permette di creare delle connessioni con tematiche che risultano essere ancora una volta al centro dell’attenzione dei teorici, così come dei lavori degli artisti.
Come non vedere nell’arte che si occupa di questioni pubbliche e sociali un’eco della cosiddetta vita attiva, di quell’impegno concreto nella società che gli stoici predicavano essere irrinunciabile?
E le ricerche metafisiche o formali non si spingono oltre la realtà contingente per contemplare la luce della verità?
O forse in ogni gesto artistico troviamo (o dovremmo trovare) una sintesi dialettica di entrambi questi aspetti?
Lo spettatore viene posto di fronte a tali quesiti che devono suscitare in lui degli spunti di riflessione.
In ciascuno di noi è insito il desiderio di conoscere l’ignoto, è proprio questo che attira le folle agli spettacoli.
Ed è su questo moto interiore di curiosità che l’esposizione dovrebbe far leva, in modo da risvegliare nello spettatore il piacere della conoscenza e la volontà di approfondire i concetti ed i legami profondi che esistono tra alcune pratiche artistiche ed i percorsi storico-critici che si sono intersecati nelle epoche passate.














Esperienze parallele:
Fred WILSON e la meditazione sul passato





















Per quanto riguarda la riflessione su epoche passate, e questioni che si protraggono da esse fino ai giorni nostri, è di notevole interesse il lavoro di un artista di origine afroamericana, che vive a New York, ed è noto al grande per le sue opere multimediali.
Fred Wilson compone installazioni che uniscono manufatti storici, oggetti kitsch, opere d’arte, video, suoni, testi fittizi e didascalie che reinterpretano in chiave ironica alcune “nozioni accettate di storia e di verità”.
Wilson utilizza spesso le collezioni museali come materia prima per le sue opere, nelle quali affronta sia temi storici che immaginari, come accade al Padiglione degli Stati Uniti d’America, rappresentati da Fred Wilson alla 50. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia.
Per quell’occasione Wilson aveva svolto un’accurata ricerca storica circa la presenza di neri africani nella Venezia del Rinascimento e l’intrecciarsi di rapporti con gli altri abitanti della città lagunare.
Attraverso l’evocazione di immagini iconografiche di neri, presenti a tutti i livelli della produzione artistica veneziana, dalle lampade pacchiane sorrette da mori sorridenti, ai capolavori di alcuni dei più grandi maestri, come Paolo Veronese,
l’artista compie un gesto grazie al quale si ricompongono le tessere di un mosaico che era rimasto incompiuto e che mette in evidenza alcuni aspetti dolorosi del presente.
Wilson riesce in effetti a parlarci di problemi della società contemporanea, quali l’immigrazione, il multiculturalismo, la tolleranza, attraverso il filtro delle esperienze passate, che per qualche motivo erano state rimosse.














Emblematico è il fatto che Wilson abbia chiesto ad un turista senegalese di fingere di vendere merce contraffatta, in realtà prodotta dall’artista, all’entrata del Padiglione, per creare un collegamento semantico diretto tra l’analisi, condotta secondo una prospettiva storica, della condizione degli africani a Venezia, e la meditazione critica sulla situazione degli immigrati nel presente. Senza contare il confronto naturale che si instaura tra la New York di oggi e la Venezia di allora, come punti di riferimento per le attività commerciali e luoghi d’incontro fra diverse etnie e religioni.
Più di dieci anni prima, nel 1992, la Baltimore’s Maryland Historical Society (MdHS) ospitava l’esposizione che avrebbe proiettato Fred Wilson nel panorama artistico contemporaneo: Mining the Museum.
Essa aveva “come soggetto la giustizia sociale e come medium la museologia”.
Tre erano gli obiettivi principali dell’artista in quest’esposizione: scavare all’interno delle collezioni per mostrare la presenza di minoranze razziali, esporre materiali storici toccanti, dal punto di vista emozionale, per risvegliare le coscienze e provocare così un cambiamento sociale ed istituzionale ed, infine, trovare riflessi di sé stesso all’interno del museo.
Articolata in otto sale, Mining the Museum occupava interamente il terzo piano dell’MdHS.
Le pareti delle stanze erano tinte di colori differenti, creando un vero e proprio percorso di senso per il visitatore, che muoveva dal grigio delle verità storiche, al verde delle emozioni umane, passando per il rosso violento della schiavitù e della ribellione, per giungere al blu dei sogni e delle conquiste ottenute con la fatica.
L’artista, che negli anni Settanta aveva avuto esperienze lavorative in istituzioni museali importanti, come il Metropolitan Museum of Art e l’American Museum of Natural History, nella seconda metà degli anni Ottanta aveva creato una serie di “finti musei” in luoghi del tutto estranei alla pratica espositiva.
In questo caso, invece, aveva, per la prima volta, a sua completa disposizione un ambiente istituzionale da sovvertire a suo piacimento, costruendo una vera e propria messa in scena con l’ausilio di tutti gli strumenti che i musei adoperano per allestire, comprese delle finte didascalie.
Questi dispositivi servivano all’artista-curatore per articolare il suo discorso critio contro gli stereotipi sul razzismo e i processi di manipolazione della verità che si trovano costantemente all’interno dell’industria culturale.
Conservando un delizioso sense of humour, Wilson ci guida, dunque, nel passato, alla scoperta delle radici di alcune delle problematiche che ancora oggi scuotono il mondo contemporaneo.
Il lavoro di Wilson, in un certo senso, rappresenta una sintesi dei due concetti di vita attiva e vita contemplativa: egli sceglie lo strumento della contemplazione, della ricerca storica e intellettuale per provocare lo spettatore e obbligarlo a riflettere, ed allo stesso tempo con la sua azione artistica mira a generare correnti di cambiamento in contesti istituzionali e sociali.

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